Sotto i raggi infuocati del sole,
infatti, in quel mattino di rinascita, era appunto di quegli uomini che
l’intera campagna era gravida: dopo aver atteso nei solchi il momento propizio,
ora si preparavano a spuntare in vista di futuri raccolti e tale lavorio di
germinazione, producendo un nero esercito vendicatore, presto avrebbe fatto
esplodere la terra.
Da “Germinale” di Emile Zola
Chi vuol vivere deve lottare! Chi
non vuole lottare in questo mondo non merita di vivere.
Da
“ Mein leben” di Adolf Hitler
Erano diversi anni che non mi
concedevo il piacere di un viaggio in treno. Da diversi mesi ne avvertivo il desiderio,
sebbene non fossi riuscito a capire il motivo di tanta brama. Tuttavia, in una particolare
occasione, in cui era possibile scegliere fra viaggio individuale, con la
solita comoda macchina, e viaggio collettivo, con il più ritenuto disagevole
treno, assecondando quell’intensa voglia, avevo scelto di coprire i chilometri
che mi separavano dalla destinazione con il mezzo pubblico. Non mi dividevano
troppe ore dal momento della decisione, tuttavia, avevo preparato la valigetta
utile per le ventiquattro ore, o poco più, che mi avrebbero tenuto lontano da
casa con la massima calma. Il giorno stabilito mi ero recato alla stazione. Non
avevo previsto che una valanga di ricordi mi sarebbero franati addosso nel
preciso momento in cui sulla banchina attendevo il mio treno. Lo avevo
completamente dimenticato, ma quella stazione era proprio la stessa dove, non
meno di cinquanta anni fa, prendevo il convoglio che avrebbe portato una
minuscola comitiva, me, mia madre, mio cugino e la sorella di mia madre, in una
spiaggia non troppo distante dalla città. Una spiaggia famosa per la sua sabbia
ferrosa, ideale, si credeva allora, per dei ragazzini un po’ gracili e
macilenti, in realtà a corto di nobili sostanze nutritive utili alla crescita.
Non c’era possibilità di scelta a quei tempi, e il desiderio di recarsi al mare
poteva essere soddisfatto solo ricorrendo a questo mezzo di trasporto, a volte con
pesanti sacrifici da parte delle madri, ma anche dei padri. Tuttavia allora era
così e non ci si lamentava più di tanto, poiché altre comodità non erano previste
dalla grama vita di famiglie operaie. Non avevo atteso molto il treno. Dopo
pochi minuti e mille ricordi d’improvviso sbiaditi, eccolo comparire
all’orizzonte, annunciato da una voce maschile. Si era fermato, alcune persone erano
scese, alcune erano salite, poche considerata la mattina di giorno feriale, gli
sportelli si erano chiusi e il convoglio aveva ripreso il viaggio. Per fortuna
il treno non era di quelli troppo nuovi, con le poltrone a vista, era il
classico treno “antico”, con i suoi bravi scompartimenti e le porte scorrevoli
e le tendine logore svolazzanti. Per un attimo la sensazione era che il tempo
si fosse fermato ai lontani viaggi avventurosi verso quel mare che allora
sembrava tanto lontano; per una frazione di secondo ero tornato bambino, e la
spiaggia e le cabine e il mare e gli ombrelloni erano sempre lì in attesa del
ragazzino di cinquant’anni fa. Ma riprendevo in fretta consapevolezza. Gli
scompartimenti erano piuttosto affollati. Cercare un posto era impegnativo,
nonostante ciò, con un po’ di pazienza l’avevo trovato. Adocchiato un posto
libero, avevo chiesto educatamente se fosse occupato, ricevuta risposta
negativa mi ero seduto piuttosto soddisfatto di aver trovato, nonostante la folla,
un sedile vicino al finestrino. Bene! mi ero detto, il mare mi attende, il sole
mi attende… oh no, ma quale mare, quale sole! è passato più di mezzo secolo da
allora, e la vecchiaia oramai incombe, le madri non ci sono più, sono volate
via e quella spiaggia ferrosa non pretende di curare più nessuno. Era quella
solo una piacevole illusione risvegliata dalla stoffa lisa dei sedili, dagli
odori d’antico e dai cartellini con gli avvisi ai passeggeri. Dopo pochi minuti
di sosta il treno ripartiva. Mi ero seduto davanti a una coppia di signore, che
si distinguevano dagli altri passeggeri, una poco più giovane dell’altra,
silenziose e dallo sguardo triste. Sebbene mi avesse colpito lo stato emotivo,
non mi interessava assolutamente indagare la ragione di quella mesta tristezza,
tanto evidente. Tuttavia, nel corso del viaggio, considerata la mia solitudine,
era stato inevitabile origliare con discrezione la fitta conversazione che
avevano intrapreso subito dopo. Sulle prime battute non avevo dato peso al racconto
di vita, poi però, nonostante tutto coinvolto emotivamente dall’esperienza
tragica di una di loro, non ho potuto fare a meno di ascoltare con più
attenzione. La bella signora che raccontava l’esperienza era di qualche anno
più anziana dell’altra, ma non di molto. Le cose che più mi avevano colpito di
lei erano i capelli di un bel colore ramato, ma con un’antiestetica riga di
ricrescita di un altro colore, e lo smalto delle unghie, non perfetto, staccato
in diversi punti. L’uno e l’altro davano una brutta sensazione di trascuratezza
che non sembravano in sintonia con la piacevolezza del soggetto. L’amica che
con lo sguardo addolorato e partecipe seguiva il discorso, non presentava
elementi di disordine, anzi, sembrava molto curata nei particolari e ogni tanto
posava delicatamente la mano sulla spalla dell’amica o le sfiorava il viso,
invitandola così più volte in modo generico a farsi coraggio.
In estrema
sintesi, quello che mi era sembrato di capire, ma non avevo motivo di dubitarne,
in quanto erano proprio sedute nel sedile davanti a me e non facevano alcun
mistero delle parole, la signora bionda soffriva di una situazione assai penosa.
La madre, un’anziana oramai giunta quasi agli ottant’anni, soffriva di una
grave malattia, molto invalidante, il morbo di Alzheimer, e da diversi mesi i
medici le avevano annunciato che non sapevano per quanti anni ancora avrebbe
potuto vivere così, ma che sarebbero stati anni assai difficili da gestire,
soprattutto per le persone che si sarebbero prese cura di lei. Dopo aver
ricevuto la terribile diagnosi, dopo averla trattenuta in ospedale per qualche mese,
i medici l’avevano dimessa, con tutte le raccomandazioni del caso. Così la
signora bionda, da allora, era rimasta a gestire la madre insieme con sua
figlia, una ragazza di ventiquattro anni, coinvolta, poverina, anch’essa nel
dramma. Del padre, ovvero del marito della signora, lei ne aveva fatto solo un
breve accenno, quel che bastava a rilevarne la poca affidabilità. Un
personaggio senza dubbio meschino, a suo modo un autentico vigliacco, che aveva
creduto opportuno allontanarsi di gran lena dalla moglie, e lasciarla quindi
cuocere nel suo brodo, non appena aveva fiutato nell’aria che le cose sarebbero
maturate in modo davvero seccante. Un divorzio era giunto opportuno a
interrompere una storia da dimenticare. Erano anni che viveva così, e sembrava
che, nonostante l’aiuto della figlia, facesse molta fatica a gestire la
malattia. Questi pazienti soffrono di continue crisi e spesso, con l’avanzare
del male, tendono a non ricordare neanche il volto delle persone amate, o una
volta amate, chissà! Le condizioni peggioravano di settimana in settimana, fino
a giungere alle condizioni attuali che vedevano la madre costretta quasi di
continuo a letto, oramai incapace di badare a sé neanche nelle funzioni
indispensabili alla sopravvivenza e quindi totalmente dipendente dalle persone
vicine. Ad aggravare la situazione era poi intervenuto un sentimento che, in
condizioni normali, avrebbe dovuto rallegrare il cuore, perché ricco di emozioni
e sensazioni, ma che allora, viste le condizioni oggettive, aveva gravato il
suo animo di troppa ansia. La signora bionda si era innamorata di una persona
della sua stessa età, un bravo signore, anche lui con un’esperienza negativa di
matrimonio alle spalle. Un divorziato che per puro caso si era avvicinato a lei
e che aveva subito mostrato nei suoi confronti attenzione e affetto. Dunque,
fra i due si era stabilito un bel rapporto e, sebbene la vita fosse già per
buona parte trascorsa, questo non gli aveva impedito di fare sogni e progetti
per quello che ne restava. Il signore aveva l’idea di trasferirsi in una città
di una regione del centro, per avviare un’attività imprenditoriale da lasciare
poi in eredità ai suoi due figli. Un progetto a cui avrebbe potuto dare ancora
un apporto concreto, considerata la relativa giovinezza, contribuendo così a
indirizzare i figli verso una possibile prospettiva di lavoro. Questa eventualità
comportava quindi lo spostamento in un’altra regione, non troppo distante, e la
signora bionda sarebbe stata felicissima di seguirlo, se non fosse stata
gravata da una simile incombenza. In più la prospettiva di una vendita della
casa di proprietà, se libera, le avrebbe consentito di ricavare quel capitale
comodo a una più agevole sistemazione in “terra straniera”. A questo spinoso
quadro si aggiungeva poi che la figlia era fidanzata da diversi anni con un
ragazzo della sua età e che avesse la legittima aspirazione a sposarsi e
trasferirsi in una casa sua, per costruire la sua vita. In definitiva, quindi,
la situazione era a tal punto compressa e fossilizzata da apparire in potenza
portatrice di fatti nuovi inerenti alla vita, ma concretamente immobilizzata in
una situazione di morte senza apparenti vie d’uscita. Con una serenità
invidiabile, la signora aveva senza remore parlato anche di eutanasia e di
assumersi in prima persona la responsabilità di intervenire sullo stato di
salute, confortata anche dalle ultime parole della madre, che, ancora in
condizioni di ragionare, aveva espresso la volontà di chiudere l’esperienza
terrena. Però, era ben consapevole che le condizioni del Paese, da un punto di
vista anche culturale, non le avrebbero permesso di adoperarsi nel modo in cui
avrebbe voluto. Tutti i partecipanti alla tragedia erano costretti a viverla
nel modo in cui mai avrebbero voluto, impossibilitati a viverla nel modo in cui
avrebbero invece voluto. L’assurdità era questa, che una persona giunta alla
fine della vita, sostenuta solo dal cuore che batteva ancora, condizionava con
un’esistenza non voluta alcune persone impossibilitate a vivere in un modo
diverso. Un’opportuna, umana, rispettosa eutanasia avrebbe potuto liberare
forze trattenute da considerazioni sociali e filosofiche discutibili, poco
rispettose, esse, dell’autodeterminazione e del libero arbitrio di individui
ancora indipendenti intellettualmente, liberi di scegliere se vivere o morire.
Dopo aver
percorso insieme un lungo tratto di strada, in previsione, le due signore
avevano con calma preso i bagagli e si erano apprestate a scendere, mentre io
avrei invece proseguito per altri chilometri ancora. Quando il treno si era
fermato, loro si erano alzate dalle poltrone e, salutando educatamente, si
erano congedate con un tenue sorriso sulle labbra. Avevo risposto al saluto
sollevandomi appena, in segno di rispetto nei confronti di una persona che
forse non si era posto il problema se avessi o no ascoltato la lunga
conversazione. La cosa che più mi era rimasta impressa di lei, nell’andar via,
sono i gesti vagamente infastiditi compiuti nel sistemare i capelli e quel
rapido nascondere le mani, come se si fosse resa conto d’improvviso del suo
stato di disordine.
Una volta
ripreso il tragitto, avevo continuato per un lungo tratto di strada a ripensare
alle parole della signora, mentre osservavo con calma il paesaggio che fuggiva
oltre il finestrino. Era indubbio che la situazione tragica non avesse troppe
vie d’uscita, poiché assumersi in prima persona la responsabilità di porre
termine a una vita che, sebbene non fosse più gradita neanche dalla stessa morente,
era pur sempre un’azione che comportava gravosi problemi emotivi, filosofici,
etici e penali. Eppure, al di là d’ipotizzati sensi di colpa conseguenti, mi
era chiaro che il farlo, se fossimo in una società più rispettosa della
legittima volontà dell’individuo pensante, avrebbe reso più serene e libere da
condizionamenti senza senso persone sacrificate a una vita dolente. Questo era
il pensiero dominante mentre il treno macinava strada ferrata verso la meta,
tuttavia, non so proprio per quale pertugio sono passato dal problema
individuale al pensiero collettivo, ossia, d’improvviso, in parallelo alla tragica
situazione della signora, mi era parsa del tutto simile la situazione tragica
che vive il nostro paese.
Certo a molti
è noto che storicamente Poteri da tempo consolidati, non sono stati in grado di
trasformare, almeno fino al sopraggiungere di una terribile crisi, le situazioni
in modo che i privilegi e le regole vigenti potessero mutare in un qualcosa di
diverso, più adeguate alla trasformazione delle condizioni sociali. Ossia, certe
classi dirigenti artefici di un determinato regime, non si sa per quali precisi
motivi, forse culturali, politici o addirittura biologici, non sono in
condizioni di trasformarsi e di rinunciare ai propri vantaggi anche davanti
alla più evidente, stridente delle contraddizioni. La storia è piena di
esperienze dove un Potere ha preferito essere spazzato via, allontanato anche
con la violenza piuttosto che trasformarsi e adattarsi. Massima espressione di
questa incapacità possiamo indicare l’aristocrazia francese alle soglie della
rivoluzione del 1789. Ora, precisamente in questo preciso periodo storico, da
noi sta avvenendo più o meno la stessa cosa. Una privilegiatissima e
arrogantissima classe dirigente, incapace di scorgere le mutate condizioni che
hanno permesso il consolidarsi del proprio potere, si ostina senza
consapevolezza alcuna a vivere in un modo troppo disuguale dalle condizioni di vita
della maggioranza della popolazione. Il parallelo evidente fra la situazione
della signora sul treno e la situazione sociale attuale, prende il via da
questo, dalla consapevolezza che un’intera classe dirigente è oggi socialmente
d’impaccio all’evolversi della società, è diventata quindi un peso insostenibile.
Privilegi esagerati come quelli a cui assistiamo non sono più tollerabili,
soprattutto quando alle masse sociali si propone una via di sacrifici e di
rinunce dolorose. La contraddizione nasce quando davanti a questa evidente
verità, confortata dai fatti, e davanti all’ostinazione in cui il Potere
continua a difendere privilegi non più difendibili, la società più consapevole
e meno cieca non ha armi adeguate per combattere e trasformare una condizione
incancrenita dalle caparbietà. La democrazia con le sue regole non consente un
allontanamento, un’eutanasia del potere, e quindi siamo costretti a convivere con
un corpo malato, senza nessuna possibile cura, solo perché principi etici e
costituzionali impediscono il normale svolgimento della vita. In pratica chi è
cosciente della situazione si trova nella seccante situazione di non poter
prendere provvedimenti, per l’impossibilità oggettiva di ricorrere a sistemi
che non hanno una legittimità, ma che sarebbero la sola via di uscita. Un
“incartamento” che porta a delle conseguenze drammatiche sull’intero corpo
sociale. Ho trovato parecchie somiglianze fra la nostra condizione politico
sociale e la condizione umana della signora: in entrambi i casi un “corpo
morente” è di ostacolo. Per quanto riguarda le nostre attuali condizioni politiche,
il “corpo morente” si caratterizza per una spiccata propensione alla tirannia.
Nei pochi mesi trascorsi, si è consolidato un regime che ha origine dalla
putrefazione del corpo politico e dall’istaurarsi di una dittatura che ha come
protagonista il peggior capitalismo finanziario internazionale criminale. I
personaggi che detengono il potere, sono l’espressione massima di questo
cancro, metastasi che infettano i vari organi dello Stato con lo scopo di
uccidere il corpo ospitante. Tre gli scopi principali che hanno nel loro
programma questi criminali: derubare la povera gente di tutti i loro averi,
fino a ridurli al livello di “pura sussistenza” di ottocentesca memoria. Massacrare
e fare piazza pulita dell’intero Stato Sociale, che con la lotta e il sangue le
generazioni precedenti avevano conquistato, Ma soprattutto, il terzo scopo, è
portare al fallimento le nazioni infestate dal cancro così da poter acquistare
per mezzo delle dismissioni del patrimonio pubblico, i beni dello Stato, dunque
i nostri beni. In verità, come ho sempre affermato, non c’è nulla di complicato
in tutto queste operazioni, basta riportate il macro al micro e diventa tutto
più comprensibile. Il genere la politica di chi presta soldi con un alto tasso
d’interesse, i così detti “strozzini”, è caratterizzata dal fatto che hanno la
tensione al massimo profitto, ti prestano soldi ma vogliono un interesse alto. Tuttavia,
lo scopo del loro intervento non è proprio quello di incassare più soldi, per
loro è più interessante far fallire l’impresa, così da poter acquisire,
rilevare a poco prezzo l’intera azienda: precisamente quello che fa il
capitalismo finanziario internazionale criminale. È proprio di questi giorni,
infatti, la notizia dell’intenzione di vendere i beni pubblici, rivelando così
le vere intenzioni del “golpe perfetto” che mesi fa abbiamo subìto. Davanti a
questa evidente azione delinquenziale su scala mondiale, sono in molti a
chiedersi cosa si può fare per impedirlo. In realtà non si può fare nulla. In
base alla precedente analisi, la condizione è bloccata dalle regole della
democrazia parlamentare borghese. Questo impedisce alle masse di regolarsi in
maniere diversa. Viviamo sotto un regime talmente criminale da poterlo
giudicare senz'altro uno dei peggiori che la storia ricordi, non solo per la
violenza fisica e politica che sa esprimere, ma anche per la capacità che ha
avuto di svuotare della stessa “essenza vitale” i propri sudditi, ridotti oggi
a puri automi senz’anima, incapaci d’agire e di volere. Quando penso alla “gente”
d’oggi, mi viene in mente sempre quella particolare pietanza che ogni tanto preparava
la mia povera mamma, soprattutto nei giorni di festa, per il tempo che
occorreva per realizzarla, “le zucchine ripiene”. In pratica il piatto
consisteva in zucchine farcite con un impasto di carne e vari altri ingredienti
in splendido rapporto. La prima cosa da fare era svuotare con un particolare
attrezzo le zucchine, piuttosto grandi, fino a ridurle a una specie di tubi
vuoti, da riempire con l’impasto appunto. Ecco, la gente che ora vive intorno a
noi somiglia molto a quelle zucchine vuote che preparava la mamma: esseri umani
“senza più neanche l’intenzione del volo” come diceva il povero Gaber.
In verità
almeno una via di uscita ci sarebbe, ma dovrebbe comportare almeno una
rivoluzione e un ripensamento dei codici morali e delle regole politiche che
impediscono ora il cambiamento. Bisognerebbe togliere ai ricchi per dare ai
poveri, anzi meglio, cancellare i ricchi dalla faccia della terra. Bisognerebbe
ripensare allo sviluppo tramite credito, all’acquisto tramite prestito e
ritornare a una rigorosissima forma di autarchia dove risulti del tutto
impossibile spendere denaro che non abbiamo guadagnato. Criminalizzare il
capitale finanziario. Nazionalizzare tutti i mezzi di produzione. Prevedere
un’austera fase di livellamento del reddito, così da impedire a ogni elemento
della società di guadagnare più di un reddito stabilito; stesso livellamento
anche per le pensioni di anzianità e vecchiaia. Bisognerebbe esautorare
l’attuale corpo politico malato e allontanarlo dalle leve del potere, con un’autentica
e salvifica Eutanasia del Potere. Un parlamento unicamerale con non più di
duecentocinquanta rappresentanti. Soppressione delle Province, accorpamento dei
Comuni e notevole riduzione dei consiglieri regionali e comunali. Abolire i
Patti Lateranensi e proibire qualsiasi forma di finanziamento pubblico alla
Chiesa. Ridurre a un terzo le forze armate e ritiro di tutte le missioni
militari all’estero. Bisognerebbe pensare a una comunità certo più povera ma
senz’altro più dignitosa e giusta nei suoi principi e nei suoi scopi… ma questa
è tutta un’altra storia.
17 giugno 2012
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