Blog di MASSIMO PERINELLI, scrittore che proporre in lettura alcune sue opere letterarie; così come articoli di letteratura, politica, filosofia, testi che dovrebbero favorire un confronto sui diversi temi del vivere. Nulla di più che un estremo tentativo, nato da una residua fiducia nelle possibilità che hanno gli individui di comunicare. In fondo solo un "grido muto", segno di una dignitosa emarginazione.

mercoledì 14 novembre 2018

Guerra di classe

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Accade sempre più raramente, non so se per fortuna o per disgrazia, che qualcosa o qualcuno mi distragga da quel desiderio profondo d’oblio dalle miserie della Realtà. L’ambizione, che spesso vale la Vita, è assai antica e diffusa, e dovrebbe condurre a una serenità approssimativa, formata da un’alchimia di emozioni e sensazioni confluenti nella più completa rassegnazione. Ma il cammino è assai duro e laborioso, tanto che soltanto pochissimi eletti riescono nell'impresa. I più si devono accontentare del solo obiettivo, alternando periodi a periodi. Dunque, questa breve premessa per giungere alla denuncia del delittuoso fatto: un brevissimo articolo di fondo, incontrato davvero per caso, che ha vanificato mesi di ascetismo agnostico. L’articoletto, intitolato “Lotta di classe”, l’ho ritenuto poi, a mente lucida, un vero e proprio tranello, ordito dal bravo giornalista per attrarre sulle sue poche righe passioni che tento di sopire, con dubbi risultati. Premesso che sarebbe stato un controsenso se l’articolino fosse poi stato scritto con grande sapienza e intelligenza, in quanto il quotidiano tutto non brilla certo di questa luce, e gli avventori/lettori dello stesso non avrebbero mai potuto afferrarne il senso, se fosse stato composto con altra pasta. La problematica che il bravo giornalista ha cercato di mettere sotto osservazione, è stata la recente manifestazione “protav” dei cittadini di Torino. Ovvio giudicare una simile manifestazione del tutto legittima, nell’immagine composta e civile; non proprio corretto, invece, il valutare una simile protesta la prova del multiclassismo che guiderebbe un certo modo di intendere la società civile e le sue aspirazioni.
Con i suoi soliti modi ed espressioni da esemplare “prete di parrocchia”, il giornalista indicava nella massa composita, fatta di borghesia varia e proletariato vario, un accomunarsi nella medesima ambizione di lavorare, crescere e prosperare, messa in conflitto con la presunta ostinazione dei “Fascisti al Governo” a impedire questa splendida prospettiva. Certo non mi abbasserò al meschino pettegolezzo che vuole una folla di signore e signori della migliore borghesia in passerella, urlanti: “Fateci lavovave!”, non è questo il mio stile di denuncia, vorrei solo indicare alcune evidenze che il povero giornalista potrebbe non conoscere, o non aver capito, non essendo la cultura e l’intelligenza gradite nella particolare categoria e posizione.
Ora, se si dovesse spiegare perché il soggetto in questione ha pubblicato un’autentica scemenza, si dovrebbe ritornare indietro nel tempo e nella storia fino a incontrare, nei nostri studi, le origini del “capitalismo”, la sua non uniformità di pensiero e azione, e le sue tante avventure, oneste o malvagie, che l’hanno fatto sopravvivere, modificato, ma sostanzialmente incorrotto nella sua ossessione compulsiva al profitto, fino ai giorni nostri. Nel linguaggio quotidiano è passata la visione dominante che la “lotta di classe”, frutto delle “estasi mistiche” del povero Marx, sarebbe prerogativa del lavoro contro il capitale, il proletariato contro la borghesia. Questo è senz’altro vero se lo collochiamo dentro la Storia, se lo consideriamo un elemento del quadro, sbagliato se lo consideriamo l’unico requisito del quadro. Una vera e propria “guerra di classe” si è sempre combattuta all’interno della borghesia stessa, allorché una particolare categoria professionale intuiva che uno sfruttamento intensivo e cieco del fattore lavoro avrebbe portato la ricchezza agli uni, pochi, ma la morte agli altri, molti. L’auspicio cantato dal loro profeta che la massa lavoratrice avrebbe dovuto mantenersi sulla soglia della pura sopravvivenza e il sovrappiù morire, era d’improvviso vista come una vera minaccia. Da qui la differenziazione, a grossolane linee, fra oltranzisti e moderati, l’attenzione verso la “componente lavoro”, le “filosofie socialisteggianti”, il miglioramento delle condizioni sociali, tutto al solo scopo di “salvare il capitale”.
Ho sempre detto che non pretendo che la si pensi in egual modo, ma qui non sto valutando un pensiero diverso, sto affermando che alle radici di simili articolini idioti non c’è nessun pensiero e nessuna intelligenza, perché non c’è nessuna conoscenza. Non c’è coscienza storica e non c’è conoscenza che questa “guerra di classe”, all’interno di una singola classe, è una costante che è giunta fino a noi, mostrandosi ora con un volto più incipriato, ma non certo diverso nelle asprezze. Il povero giornalista, avrebbe dovuto almeno essere informato che oggi la principale preoccupazione di un certo mondo imprenditoriale è di nuovo la sua sopravvivenza: ancora, sempre la sopravvivenza. Studiosi e capitalisti illuminati hanno da qualche tempo percepito che la vittoria avvenuta nel novembre 1989 ha portato grandi cambiamenti nella psicopatologia capitalista, trasformando individui malati in deformi egoisti, accecati dalla lussuria della vittoria e ostinati nel massimo sfruttamento. Grida di panico si sono sollevate, accomunate dalla volontà di dissuadere, e così “salvare il capitalismo”, per l’ennesima volta. Quindi, la manifestazione di Torino, non è come dice il Poverino la prova che si ha da una parte un'ammirevole unità di Classi, una saggia comune visione, e dall’altra un’ottusità colpevole, è solo il sintomo che all’interno della borghesia imprenditoriale e finanziaria c’è sempre quel confronto ostico che mette in opposizione una patologia autodistruttiva a una presenza cosciente nella Realtà, sebbene inferma.
Non volevo dilungarmi in analisi noiosissime che avrebbero appesantito la piccola denuncia, e credo di averlo fatto. Considero l’articolino una scorrettezza nei confronti delle mie ambizioni: il colpevole sono io stesso, che ancora non riesco a ignorare del tutto l’imbecillità e la menzogna, supreme virtù del nostro tempo. Avrei potuto dilungarmi, spiegare meglio ma sono due le ragioni principali che ora mi impediscono di farlo. La prima è che gli individui consapevoli e intelligenti non hanno bisogno della mia lunga pochezza dialettica per afferrare il senso delle parole; la seconda è che le tante parole non servirebbero comunque alla comprensione, se la platea fosse composta da individui inconsapevoli e deficienti.

14 novembre 2018

giovedì 31 maggio 2018

Piccoli privilegi.






Forse un giorno, quando ero giovane e colmo ancora di tutti i necessari sentimenti unilaterali ed eccessivi della propria personalità, avrei anche avvertito il bisogno di giustificare e di chiarire i motivi che spingono a certe manifestazioni. O meglio, precisare cosa ci ha spinto verso un comportamento che appare come eccessivo e villano. Ma se per noi il tempo non è passata invano, e si è arrivati alla determinazione che la nostra vita è una vita riuscita, si è ottenuto quindi un “successo”, la consapevolezza ci dona anche una particolare posizione di “privilegio”, che ci consente di scorgere lucidamente i disagi, i dolori e le frustrazioni altrui. Il più delle volte questa capacità di essere partecipi, vicini, incontra la buona disposizione d’animo di chi sente che un affetto può aiutare. Altre volte, tante volte, l’immodestia e la mancanza di umiltà, porta a sovraccaricarsi di tutta quella acredine verso gli altri che impedisce di distinguere il bene dal male. Il credersi perfetti porta alla solitudine e all’emarginazione. Il credersi perfetti porta inevitabilmente a considerare gli altri imperfetti, e dunque responsabili del proprio dolore. È questa una tipica forma di “autodifesa ignorante”, che porta a ignorare le proprie responsabilità. È una difesa, ma una difesa sbagliata, che spinge a offendere, a calunniare di continuo chi responsabilità non ha. Non importa. La posizione di “privilegio” contempla anche la serenità di aver fatto tutto il possibile, ma è pur vero che non tutti si possono salvare.



lunedì 9 aprile 2018

Breve discorso sopra i sei capitoli della prima parte (La finestra), del romanzo “Gita al faro” di Virginia Woolf.







Vorrei premettere che una faticosa evoluzione umana e culturale di individuo pensante, mi ha portano, non senza antipatiche conseguenze, a rendere soggettivo quello che era stato solo oggettivo. Ossia, franata una verità che credevo assoluta, non ne ho costruita una nuova analoga, ma ho evitato proprio di costruire alcunché, trovando del tutto inutile edificare con tanto sforzo un assunto che in breve potrebbe cambiare, o non essere più adatto. Questo per dire che la riflessione che ho fatto sull'ennesima lettura parziale di un testo tenuto da tanti letterati nella massima considerazione, ora ha avuto questo risultato: “crescendo” potrei anche valutarlo in modo diverso.
Come suppongo sia noto a tutti, in campo narrativo esistono “prodotti commerciali” e “opere letterarie”. Non è questo il luogo per disquisire su una differenza che, senza dubbio, è patrimonio comune dell’umanità. Si rischierebbe di infastidire chi non lo merita o di ripetere cose risapute e stanche. Qui vorrei solo prendere in considerazione il secondo tipo di pubblicazioni, le “opere letterarie”, che sono tali perché contengono elementi riconosciuti come “artistici”. Anche qui evito di inoltrarmi. Il mio breve discorso non è quello di negare un’opera che merita di essere considerata “arte”; tutt’altro, ritengo invece che proprio per questo valore intrinseco, riflette, rispecchia comunque delle carenze che sono classiche del periodo storico e che, inoltre, rilevano un atteggiamento umano e artistico che non definirei proprio spocchioso, ma senza dubbio alcuno all’apparenza assai arrogante e presuntuoso.
Portando il discorso nel quadro ristretto della narrativa Europea, dal secolo XVIII in poi si è andata definendo in essa una tendenza che potrei definire di carattere sociale/educativo. Nel gran mare della narrativa ad uso distrazione della buona borghesia salottiera e annoiata, qualcuno ha creduto opportuno immettere degli elementi che avevano la capacità di indicare quali fossero le realtà sociali e umane che, secondo gli autori, andavano osservate e magari cambiate. In mancanza di varie vie di “comunicazione di massa”, i romanzi erano anch’essi fonte preziosa di chiarimento e consapevolezza, ovvio fra chi sapeva leggere. Almeno così si è creduto per un periodo di tempo. In seguito il progetto ha rivelato il suo aspetto di grande Illusione”, non riuscendo ad avere l’effetto sperato. La cultura e la coscienza non si era affatto diffusa fra le maggioranze, ma si era sempre più relegata fra risicate minoranze disperate, frustrate ed emarginate.
Se uno “scrittore” decide di partecipare al gioco della vita dando il suo contributo, inventa storie che abbiano la capacità di indicare i temi che lui ritiene importanti, che diano se possibile buoni spunti di riflessione a più lettori possibile. L’opera letteraria, per esser tale, deve possedere diverse caratteristiche. Importanti sono l’espressione personale e la comunicazione. Un eccesso dell’uno e dell’altro, comporta una squalifica della stessa. Un corretto equilibrio di attenzione dell’artista nei confronti del pubblico non significa snaturarsi, o spalmarsi su masse primitive, non significa far scrivere le opere dalla folla, significa riuscire meglio nella divulgazione delle “proprie idee”, così da migliorare la “propria capacità” di fornire spunti di riflessione. Il lettore va rispettato e tenuto in considerazione, poiché leggendo la storia deve immedesimarsi, comprenderla, e la grandezza dello scrittore è quella di veicolare l’idea, l’immagine, la sensazione, l’emozione mediante le parole, i periodi e le frasi, che devono essere comprensibili, a costo di restare minuti, se non ore, su un’unica pagina. Quando fa questo, significa che considera essenziale ciò che lo scritto deve provocare. Lui è il mediatore fra la realtà e chi legge. Nel corso dei tempi, però, questa filosofia che considera la collettività si è andata via via sgretolando, e il solipsismo ha prevalso sul progetto sociale. Nella Storia, il conflitto fra individuo e collettività, fra visione egoistica e modello altruistico dell’ordine sociale non si è mai risolto.
Per rendere visibile il pensiero posso citare la superiore grandezza di un’opera come “Germinal” di Emile Zola, scritto nel 1884/85, corretto nella sua forma tecnica, scorrevole e coinvolgente. Comprensibilissimo nel testo e nel messaggio di denuncia sociale; contrapposto al testo “Ulysses” di James Joyce, scritto nel 1922, l’unico libro che abbia mai visto in vendita con un altrettanto voluminoso libro di delucidazione accanto. Facile ricavare che dalla “grande illusione” di fine -800, si è arrivati all’avvolgersi su se stessi dell’inizi del -900. Evidente che lo scrittore Joyce non aveva nessun interesse per il “pubblico”. La sua semplice filosofia di vita è stata quella di interpretare la collettività come massa al servizio dell’individuo: è il lettore che deve sforzarsi e capire l’artista, deve darsi da fare per riuscire a entrare nella sua mente guastata dai deliri.
Ora, venendo alla questione con la signora Woolf, del suo testo “Gita al faro” ho letto per tre volte i primi tre capitoli della prima parte, e per due volte i secondi tre. Di quello che ha scritto, purtroppo, non mi è rimasta traccia alcuna e, disgrazia maggiore, non ho capito granché. A questo punto le possibili spiegazioni sono due: o sono le mie ridotte capacità cognitive a impedirmi di apprezzare il patrimonio che la signora Woolf ha messo a disposizione; oppure la signora Woolf, vittima di se stessa e dei suoi tempi, non ha creduto opportuno sforzarsi a rendere comprensibile il testo. Che io sia un soggetto che non apprezza sperimentalismi e innovazioni non apporta giustificazioni alla prova della Signora, perché, anche qualora fosse, le sue pagine risultano comunque incomprensibili. Sperimentalismo e innovazione in questo caso sono del tutto fallimentari.
Sciocco dire che le pagine sono scritte con la tecnica del “flusso di coscienza”. Non è questa una motivazione che rende incolpevole l’autrice, piuttosto la qualifica, o squalifica, come individuo che non ha ben valutato le conseguenze di questo metodo di scrittura. O le ha valutate e ne sconta le conseguenze.
La mia idea su questo ennesimo incidente di percorso lungo la lettura della Grande Narrativa Europea, è piuttosto semplice da render nota. Quasi mai un importante fenomeno della Storia ha una sola causa, piuttosto è tutto una complessa alchimia di fatti che lo rendono possibile, o impossibile. Anche in questo caso c’è una precisa e perpetua dinamica sociale che va sempre a privilegiare chi è orientato verso norme di vita più in sintonia con il modello sociale dell’epoca. Se degli elementi hanno riferimenti che comportano sovvertimento, caos e disordine, ovvio che questi elementi vanno emarginati. Nella particolare circostanza storica della signora Woolf, gli individui più sensibili si andavano avvolgendo su se stessi. Hanno rivolto la loro attenzione all’interiorità, proprio perché l’esteriorità, il Mondo intorno e i punti di riferimento di sempre, i Valori su cui avevano vissuto, venivano velocemente distrutti da una soverchiante “volontà di potenza”, dalla ricerca del massimo profitto, dall’espansionismo, dal colonialismo e dalle guerre. La mostruosità del “fuori” favorisce una disperazione che fa rivolgere le attenzioni al “dentro”. Le colpevolezze che attribuisco a questo modo di porsi nei confronti dell’altro, nascono proprio dai sentimenti di arroganza e presunzione che, sebbene in modo inconsapevole, di più se in modo consapevole, hanno praticamente distrutto, assassinato, condannato a morte una via luminosa che sembrava indicare quale fosse il giusto contributo che uno scrittore dovrebbe dare alla società in cui vive. Nessuno vuole negare il grande apporto che la creatività dell’individuo sa elargire, credo piuttosto che da parte sua sia necessario dare maggiore spazio al sociale, evitando di ridurre la narrativa d’arte a questione privata, inutile dimostrazione di bravura, catalogo di assurde eccentricità.
Al di là di quale sia l’ipotesi più realistica, come individuo pensante e cosciente, condanno questo tipo di esperienza narrativa, giudicandola inutile, dannosa e lesiva della dignità del lettore.
Reputo tuttavia censurabile la spontanea antipatia che nutro per questo tipo di osannati autori incomprensibili, e indecifrabili anche se si tenta di farli comprendere. Così come reputo deplorevole pensare che lodi e onori, così come l’apprezzamento altrui, siano favoriti soltanto dal terrore di apparire ipodotati dall’ambiente che ci siamo scelti per trascorrere la nostra vita.

6 aprile 2018