A Cleo (1992 – 12/11/2004), un’incredibile gatta bianca e nera.
Vorrei avere nella mia casa:
una donna ragionevole
un
gatto che sfiora i libri
amici in ogni stagione
senza i quali non posso vivere.
Guillaume
Apollinaire
Cancella l’amore nei morti, la morte, e scruta inerte l’amore nei vivi. Nei
vivi con la morte non muore, l’amore, resiste fino a quando con la morte muore.
Nessuno di noi agognava un nuovo affetto. È giunto
come pura essenza, inatteso, misterioso, disinteressato all’ammonimento della
ragione. Ma cosa sarebbe, cosa, se fiorisse in un tempo e in una forma definita.
Non era attesa, ed era tutt’altro che una
rappresentazione, lei non lo era affatto.
Ti ho voluto… no, che sciocchezza… ti voglio bene
Cleo!
Ultimi giorni di settembre. Fa freddo, un freddo
pungente; è insolito ma qualche volta accade; pochi giorni, due o tre, poi
tutto finisce, si risolve presto. Rientriamo che è già notte, dopo una serata
piacevole, una lunga cena trascorsa in compagnia. Procediamo spediti, ritirati
nei nostri abiti leggeri. Attraversiamo di corsa il cortile esposto a nord,
freddo e inospitale.
“Lì, un topo, mamma è un topo!”
Mia figlia intravede qualcosa che striscia a
ridosso di un muro d’angolo, ai piedi di una fioriera. Il pallido chiarore
degli asfittici lampioni consente di scorgere appena un’ombra.
“Un topo? Dov’è, dov’è!” Chiede la mamma spaurita.
“In quell’angolo, a destra, lo vedi cerca di
nascondersi, ha il musetto bianco!”
“Io non lo vedo! Musetto bianco? Un topo con il
musetto bianco? Mai visto una cosa simile.” Affermo perplesso.
“Non ho mai visto un roditore con il muso bianco
che si nasconde impaurito in un angolo.” Riflette la mamma ad alta voce.
“Già, i topi non si appiattiscono a terra
spaventati, fuggono via lesti; dunque, se non è un topo cos’è… vediamo… potrei
avvicinarmi e se lui non fuggisse… potrei anche…”
Spaventato a morte e semi assiderato non ha
neanche la forza di reagire. Accenna ad un vago tentativo di fuga, a destra, a
sinistra, infine solleva un miagolio disperato e si lascia afferrare. In verità
è un gattino, ma davvero piccolo come un topo. Fra le mie mani trema, non so se
più dal freddo o dalla paura.
“È un micino, guarda mamma un micino!”
“Sì, è un gattino, è carino, molto carino, ora
lascialo giù, rimettilo dov’era.”
“Perché, è mezzo morto di freddo, se lo lasciamo
qua…” Replico alla mia compagna che, lungimirante, prevede e teme i possibili
prossimi eventi.
“Che cosa avevamo detto, ricordi? Pucci se
n'è andato l’altr’anno, Ciccio pochi mesi dopo… cosa avevamo detto?! Hai
già dimenticato lacrime e dolore?”
“Hai ragione, accidenti se hai ragione! Allora,
cosa possiamo fare… guardalo, io non ho il coraggio di lasciarlo qui, e tu?”
“Io sì! Lui era qui, se fossimo passati cinque
minuti prima, o dopo, non lo avremmo incontrato, dunque, nessun problema. E poi
ci sono altri gatti, altra gente, qualcun altro si prenderà cura di lui, noi
non possiamo.”
“Hai ragione, bene, ora lo…” Esito ancora,
accarezzo con un dito la minuscola testolina. Un altro miagolio acuto. È
sprofondato nel palmo della mano, il calore certo gli è di conforto, però trema
ancora; passano i secondi e ad ogni secondo che passa sento che sarà sempre più
difficile abbandonarlo.
“Allora? Lo vuoi posare!” Insiste la mia compagna.
“Un istante, un istante, che fretta c’è!… Che ne
pensi, cosa potrebbe capitarci se lo portiamo a casa!”
Mi guarda infastidita, poi guarda il topo,
che si volta quando avverte la carezza di un’altra mano.
“Sai bene cosa accadrà, lo sappiamo!”
Saliamo in ascensore, io con la creaturina di
pochi grammi fra le mani. Sorridiamo, tutti e tre, eppure, due non possono
dirsi pienamente radiosi: disturba una contraddittoria sensazione, come se la
decisione non fosse stata presa da noi, come se fossimo stati costretti,
invece, da un oscuro Qualcosa. Solo mia figlia mostra incorrotto
entusiasmo. Entrati in casa, ci bastano pochi minuti per attrezzare un angolo
accogliente: la lettiera per i bisogni fisiologici, un cesto di vimini con
cuscini e plaid di lana, ciotole; non manca nulla, non abbiamo gettato via
niente, tutto è rimasto così, da quando i nostri due siamesi ci hanno lasciato;
è sufficiente togliere dalle buste di plastica quello che era stato riposto. In
casa non c’è nulla da mangiare, adatto a un gattino da svezzare. Problema che
risolviamo presto con del latte e un po’ di petto di pollo, cucinato e tritato,
che il micio, per fortuna, divora avido. Una volta satollo, nel cesto di vimini
dove la mia compagna, sotto al plaid, ha sistemato una borsa d’acqua calda, il
trovatello, che appare soddisfatto dell’accoglienza ricevuta, rifocillato si
distende su quel ventre tiepido, sfodera appena le unghie e spinge con le zampe
anteriori, alternando la destra e la sinistra in un gesto tipico, come se
avesse ritrovato, dopo varie peripezie, la sua mamma. Lo guardiamo mentre si
stiracchia beato, con la sensazione comune che ora il vuoto determinato da una
doppia recente scomparsa si sia in parte colmato, la famiglia è tornata quasi
al completo, così com’era. Non appena chiude gli occhi ci allontaniamo,
soddisfatti, ma sempre con quella strana sensazione di essere stati usati, di
essere soltanto strumenti passivi di semplici passioni o oscuri dèi
sovrastanti.
Mi spaventa molto questo primato, questa mancanza
di dominio.
Il gattino che noi crediamo un maschio, per questo
lo chiamiamo Leo, prende in fretta possesso della casa, e lo fa come tutti i
gatti alle prese con un ambiente sconosciuto: con curiosità e diffidenza. Si
comporta come un micio qualsiasi, gioca, mangia, dorme, corre, ma con una
furia, un’animosità davvero insolita. Dimostra subito di non amare troppo le
coccole, e questo è strano: non esiste un gatto che detesti le coccole, eppure
lui esiste. Una carezza, due, alla terza soffia e graffia come una fiera. Come
si fa a tenere un gatto sulle ginocchia e non aver voglia di accarezzarlo, di
vezzeggiarlo, sentire la morbida pelliccia fra le mani, sentire il suo ron
ron di piacere crescere d’intensità… Leo non fa nessun ron ron! Si
accomoda usandoti come un confortevole cuscino, e come oggetto inanimato
pretende da te la massima immobilità: se tenti di toccarlo ecco il primo avviso
d’insofferenza, la coda che si muove; se insisti soffia, e se ti muovi ancora
se ne va scocciato. Leo è un gatto davvero singolare. Se fosse un essere umano
si potrebbe dire di lui che è un vero insopportabile misantropo. La mia
compagna non sopporta questa incomprensibile particolarità, la giudica una
mancanza, un difetto da correggere, non un elemento distintivo, e come ogni
femmina tenterà di cambiarlo, ogni giorno, ogni sera, senza demordere, e senza
nessun risultato.
Alla prima visita, per effettuare i vaccini,
Paolo, il nostro amico veterinario, ci informa che il micio in verità è una
micia, e dunque Leo si trasforma in Cleo.
“È sana, molto carina, europeo bianco e nero; la
mascherina non è perfetta ma queste macchiette sul muso le conferiscono un
aria… un’aria… impertinente, furbastra.” Afferma l’amico.
“Impertinente? Furbastra? Ma
figurati, è una vera bestia selvaggia, temo che non sarà una convivenza
pacifica, non lo so se andremo d’accordo con lui… con lei! Accidenti è pure una
femmina; non mi piacciono le femmine, i miei gatti erano maschi ed erano…”
“Lascia stare!” Mi interrompe, posandomi con
espressione competente la mano grande e grossa sulla spalla
“Lascio stare, perché?”
“Erano due siamesi, e i siamesi sono una razza a
parte, diversa, particolare, hanno qualcosa in più.”
“Sì, lo so, è vero! E lei invece?”
“Lei… è una gatta normale.” Conclude.
No, Cleo non è affatto una gatta normale, anonima
come ha creduto il veterinario. Giorno dopo giorno ci rendiamo conto che, per
esempio, sopporta molto molto male l’imposta dorata prigionia. La casa, la
nostra casa, dove prima hanno vissuto sereni due gatti, a lei va stretta.
Insofferente e aggressiva, tenta in tutti i modi di evadere, di ritornare giù,
nel cortile dove pochi mesi fa l’abbiamo trovata. Cleo ci pone davanti ad
un’altra difficoltà, a un nuovo contraddittorio dilemma: lasciarla libera,
com’era o costringerla in casa, com’è. È lecito, conforme al nostro senso di
giustizia piegare la sua vita alle nostre decisioni? Cos’è quel Qualcosa
che ci ha obbligato ad intervenire sul suo destino! Compassione? E di cosa si
nutre la pena che stringe il cuore davanti alle sofferenze di un qualsiasi
essere vivente! Cosa ci spinge alla partecipazione, all’ingerenza! Solo
superbia? Quanto la sensibilità è parte del ciclo della vita, e in che misura
non lo è! Esiste un confine? È legittimo nel nome del nostro piacere
costringere un altro essere a vivere recluso, così da annichilire i suoi
istinti?
Cleo, nei pochi giorni che passiamo nel dubbio e
nella riflessione, in verità non ci concede scelta alcuna, qualunque cosa noi
potessimo pensare o decidere, resta che lei desidera andare via. È tenace e
ostinata nel reclamare la sua libertà.
Anche gravati da sensi di colpa mai sopiti, un
giorno, decidiamo di riportarla nel cortile.
Passiamo tutta la giornata in ansia. Cleo trova
subito grosse difficoltà ad ambientarsi. Gli altri gatti la guardano con
diffidenza, lei reagisce soffiando e tirando graffi. Resta nascosta dietro una
siepe per tutto il giorno, forse lì trascorre anche l’intera notte. La mattina
successiva la signora Franca, che accudisce alla piccola comunità di gatti del
cortile, ci telefona preoccupata.
“La vostra gatta bianca e nera è qui. Ha creato un
vero sconvolgimento nelle abitudini degli altri gatti. Come sarebbe a dire, è
vostra o no?! Non se ne parla per niente, è una vera cattiveria tenerla in casa
e poi sbarazzarsene, è da incivili, da persone senza cuore. Oh, la cattiveria
umana non ha proprio confini, sareste così crudeli da…”
Lungo e tribolato spiegarle come stanno in realtà
le cose. Ma la signora Franca è una persona comprensiva, una signora dallo
sguardo mobile, irrequieto e intelligente, seppure…
Abita in un appartamento al quarto piano, nella
scala accanto. Le nostre stanze da letto confinano, divise da una semplice
parete, e, soprattutto la domenica mattina, la sento cantare mentre passa
l’aspirapolvere; canzoncine antiche, oggi dal sapore naif, che parlano
di splendide Giovinezze e di gloriose Primavere. È piacevole
sentirla cantare, nonostante le opposte visioni del vivere sociale. Musica e
voce trasmettono ottimismo, entusiasmo, una fiducia nella vita che, ahimè, come
ci racconta la storia, in passato non è stata gioiosamente onorata. Le è un po’
ostico convincersi del particolare carattere di Cleo; sulle prime mi ascolta
con diffidenza, poi, confortata dalla sincerità delle intenzioni, e dal nostro
comune amore per i gatti, fra di noi si fa strada una certa simpatia,
inquietante se consideriamo quanto eccessivo spazio concediamo alle ideologie,
piacevole se insieme danziamo ascoltando l’armonia dei sentimenti.
Per qualche settimana seguiamo dall’alto i disagi
che Cleo incontra nell’affrontare il mondo. Le esperienze non la cambiano più
di tanto. Cleo non mangia insieme agli altri gatti, la paziente signora Franca
dispone ogni mattina una ciotola separata, solo per lei. Cleo non si lascia
accarezzare dai condomini, fugge via non appena li vede, tranne qualcuno, come
il signor Massimo, dinamico pensionato che, non si sa per quale particolare
ragione, ottiene il suo prudente consenso. Cleo non gioca con i suoi simili,
non si accoccola con loro al sole, non si struscia muso a muso
nell’atteggiamento che marca lo stesso gruppo d’appartenenza; Cleo se ne sta
sola, sdraiata su un alto triangolo di muro, schiva e riservata; oppure
all’ombra di un vaso, sfuggente e pensierosa.
Cleo ha voluto conoscere il mondo, ma abbiamo la
seccante sensazione che il mondo per lei non sia di particolare incanto. Appare
come un corpo estraneo e tormentato, in un ambiente comune e tranquillo.
Il nostro ritorno a casa, di solito l’ora
consueta, è accompagnato sempre dagli stessi gesti: le chiavi, il box, le
scale, pochi metri di cortile, il portone, l’ascensore. Per le prime settimane,
non molte, siamo noi a cercarla, la sera, ansiosi di appurare le condizioni di
salute; ma col passar del tempo, non molto, è lei che inattesa inizia a venirci
incontro. Puntuale sulle scalette che dal box conducono al cortile, con la coda
sollevata aspetta la nostra carezza, una non di più; poi insieme ci avviciniamo
al portone d’ingresso, e per qualche giorno, non molti, lei preferisce
scrutarci andar via. Succede spesso di ritenere realtà un nostro desiderio,
così, ci convinciamo sempre più che lei è alle prese con un pensiero.
“Forse vuole ritornare a casa! Forse il mondo dove
è voluta tornare non le piace!”
“Smettila di dire sciocchezze!”
Non forziamo le decisioni. Aspettiamo. Fino a
quando, rientrando come ogni sera, oltrepassa quel confine scelto per giorni e
giorni, e con nostro intenso stupore ci segue fino a dentro l’ascensore.
Pochi minuti, e senza difficoltà ritrova le sue
cose, le sue infantili abitudini, la sua casa. Da quel giorno Cleo è
libera di scendere e salire, di restare fuori casa o di rientrare. Quando il
clima lo permette, in primavera e in estate, la mattina scende con noi, resta
nel cortile fino a sera poi rientra. Quando fa freddo, soprattutto d’inverno,
se ne sta rinchiusa in casa senza la minima intenzione di mettere il naso
fuori.
Le basta poco per uscire dall’anonimato felino. Le
bastano pochi mesi e buona parte del condominio inizia a identificarla col suo
nome, e con la sua abitudine: la gatta che sale in ascensore. Qualche volta
resta immobile senza uscire dalla ristretta cabina, e mi guarda con i suoi
occhi gialli. Parlo con lei come ad un essere umano, convinto che possa
capirmi.
“Cleo siamo arrivati, vuoi scendere per favore?”
La spingo piano, ma non si muove. “ Ti prego, abbi pazienza, siamo arrivati, è
il nostro piano, la nostra casa, non la riconosci? Vuoi sbrigarti! Cosa hai
deciso di fare!”
Soffia se insisto a spingerla, mi fissa con
espressione cupa, e sembra voglia dirmi:
“Voglio andare più su! Dove arriva questo
ascensore! Cosa c’è più in alto! Un mondo migliore del cortile, migliore della
nostra casa?”
Col signor Massimo ci incontriamo spesso, è una
persona garbata, attiva, simpatica ed è piacevole scambiare quattro
chiacchiere.
“Cleo è incredibile!…” mi racconta con velata
ammirazione “Seguo spesso dal terrazzo i suoi gesti. Alla solita ora inizia ad
aspettarvi e quando sente il rumore della serranda del box lenta lenta si avvia
verso le scalette. Sembra che conosca i tempi per giungere quando siete
prossimi al cortile. Certe volte la vedo esitare, come se avesse la capacità di
calcolare che non farà più in tempo ad arrivare puntuale, così, preferisce
variare il percorso, per incontrarvi davanti al portone.”
“Oh, lo so, è incredibile, strana, diversa, in
certe situazioni sembra addirittura che rifletta.”
“Ma senza dubbio riflette!” Mi risponde deciso,
con espressione convinta.
Non è stata una gradevole giornata oggi, no…
proprio non si può dire sia stato uno dei miei giorni migliori, anche se è sera
inoltrata di una splendida precoce primavera. Fa caldo, il tempo è stupendo,
c’è ancora luce, e il giubbetto di cotone è da un po’ che, piegato, ingombra
inutilmente l’avambraccio. Sudato e nervoso rientro in casa, nella speranza che
le cose più care mi siano presto di conforto.
La gente è proprio stupida, o meglio, non proprio
stupida, ignorante è l’aggettivo giusto; perché ignora, perché è misera nello
spirito e nella materia; è arrogante, presuntuosa, priva di rispetto e di
considerazione per gli altri, dunque, con questo bagaglio di pochezze, con
queste avvilenti premesse, è così facile che il comportamento sfoci spesso
nella malvagità o nell’arbitrio o nell’ingiustizia. È un problema di cultura,
ahimè, irrisolvibile. La gente proprio non mi piace, non mi è mai
piaciuta! Penso demoralizzato, mentre salgo i pochi gradini che mi separano
dal cortile, che spero deserto così da non esser costretto a sorridere o a
salutare.
Accanto al portone di casa ad attendermi c’è lei.
Accoccolata nella medesima posizione, a destra, accanto alla fioriera. Oggi ha
preferito non venirmi incontro. Da lontano la vedo immobile girare lo sguardo
di qua e di là, seguire vigile i movimenti degli inquilini che rientrano dopo
una giornata di lavoro: persone che a lei non interessano e che tratta
con molto sussiego. Non si sposta dalla posizione, neanche se qualcuno tenta di
corromperla con una carezza o una banale lusinga; sostenuta e distaccata, va a
nascondersi dietro una siepe poco distante solo quando un bambino, brusco e
disordinato, come sono tutti i bambini, tenta di avvicinarsi: alcuni fanciulli
non fanno distinzioni fra lei e un cane, e lei non è un cane!
Appena mi vede spuntare mi corre incontro, un
miagolo, attende la rituale carezza, una non di più, alza la coda e poi mi
precede come per indicarmi la strada. Non sono mai riuscito a capire come fa a
riconoscermi, a distinguermi: per lei gli esseri umani dovrebbero essere
tutti uguali, nell’aspetto; non so, forse sarà l’odore, forse il rumore dei
passi, forse l’immagine, comunque, qualcosa di caratteristico che sa
appartenere solo a me. Un vero mistero.
Non sono il solo a rientrare a quest’ora. Un
giovane inquilino che ha preso da poco in affitto una stanza nell’appartamento
accanto al mio, con incedere dinamico mi raggiunge mentre sono alla ricerca
delle chiavi per aprire il portone. È uno studente universitario, poco più che
adolescente, università statale, di certo, perché ha il tipico aspetto del
poveraccio che fa grossi sacrifici per studiare. Un bravo volenteroso morto
di fame emigrato da una regione vicina, insomma; uno dei tanti che pagherà
rette, libri e affitto adoperandosi in qualche lavoro precario, sottopagato e
in nero. Chi ha disponibilità di soldi e non ha l’aspetto del morto
di fame, non va nelle università statali, va in quelle private, quelle
giuste: selezione di classe, altro che democrazia e pari
opportunità!
“Ho le chiavi pronte, se permette apro io.”
“Oh, prego, prego… buonasera!” Rispondo al garbato
superamento in sollecitudine.
“Buonasera!” Replica, mentre apre il portone e
osserva perplesso lei che si intrufola lesta nell’ingresso e ci precede,
accomodandosi poi davanti alla porta dell’ascensore.
Il povero ragazzo la guarda. La sicurezza dei
movimenti non concede spazio all’eventualità di farla uscire; l’effetto
conseguito varrebbe come a cacciare via un individuo solo perché ha un aspetto
insolito. L’ascensore è appena salito al settimo piano; bisogna attendere;
l’universitario, barbuto e sciupato, lo richiama; qualche secondo ancora,
mentre io, lei e lui, affiancati e silenziosi restiamo in attesa. Di
proposito mi mantengo distaccato. Fingo di non rilevare la visibile confusione
del vicino. Continua ad osservarla, poi distoglie lo sguardo dal piccolo
esserino e cerca i miei occhi, che apposta gli nego per giocare con la sua
crescente curiosità. Nel breve periodo d’attesa, avrà alzato e abbassato gli
occhi tre volte, imbarazzato, esitante, senza trovare il coraggio di chiedere.
Non appena l’ascensore arriva al piano terra le porte si aprono, Lei
sale per prima, si accomoda, sistema la coda avvolgendola attorno a sé, sempre
con esperta sicurezza. Gioco col povero universitario. Avverto la sua intatta
voglia di domandare. A lui non è mai capitato di incontrarci. È accaduto tante
volte ma gli altri hanno sempre trovato la maniera di domandare.
“Mi perdoni, è sua la…”
“Non è mia! I gatti non appartengono a
nessuno. Lei vive insieme a noi, su, al quarto piano.”
“E sale in ascensore?!”
“Già, già, è sempre salita in ascensore!”
“È strano questo, non le pare? Mai nessuna
reazione claustrofobica?”
“Mai!”
“Sarebbe davvero seccante rimanere chiusi dentro
un ambiente angusto in compagnia di un gatto infuriato, non trova?”
“È una possibilità che non possiamo escludere!”
“Però, è
deliziosa!… Sai che sei tanto dolce?” afferma con voce in falsetto rivolto a lei
che lo ignora “È dolce, non è vero?” Mi domanda bramando sicurezze.
“No, affatto, se c’è una caratteristica
caratteriale che non le appartiene è la dolcezza; spesso si comporta come una
vera e propria bestia feroce!” Rispondo serio.
“Nel senso che graffia e morde?”
“Nel senso che lacera e dilania.”
“Ah, capisco… beh, buonasera!” Mi augura mentre
tira un sospiro di sollievo, scende al suo piano e si allontana di fretta.
“Buonasera!”
Ecco, con possibili sfumature e varianti, questo è
un tipico dialogo quando uno sconosciuto ci incontra, e intrigato chiede
notizie. Invece lui, il povero universitario, preferisce presumere e tacere.
Quando arriviamo al piano, lei si precipita fuori, senza aspettare che
la porta sia del tutto aperta, quel tanto che basta. Gira a destra, pochi
passi, annusa il tappetino, si arrota vigorosamente le unghie, mentre apro la
porta di casa.
“Arrivederci, buona serata!” Mi augura il
ragazzotto mentre si allontana verso la sua stanza presa in affitto per una
cifra da capogiro, ai limiti dell’usura.
“Ci vediamo, a presto!”
“Ciao micio… come si chiama?” Accenna infine, con
un grandioso Mah! dipinto sul viso, rivolto a lei che insiste nel
non considerarlo.
“Cleo, si chiama Cleo, è una micia!”
“Allora, ciao Cleo!”
Cleo come tutti i gatti detesta i cambiamenti, le
varianti, tollera appena le imprecisioni: se alle ore venti si cena, costi quel
che costi, dovesse venire giù il mondo intero, alle ore venti si deve cenare,
magari spostandosi solo un po’ più in là, accanto alle macerie fumanti. Se c’è
una necessità, se la vita, per caso, dovesse imporre un’urgenza, un lavoro da
eseguire prima del suo pasto, Cleo è capace anche di attendere, aspetta,
ma l’attesa si paga, si sconta; ad ogni minimo spostamento mi segue, mi pedina,
per ricordarmi di continuo che l’ora di cena è trascorsa da cinque minuti, da
sette minuti, da dieci minuti, da dodici minuti, da dodici minuti e mezzo… un
assillo costante, tormentoso, accompagnato da impercettibili, dignitose
lamentele, capaci di piegare un Cavaliere Teutonico alla sua volontà.
Una volta placata la fame, si placa anche lei. Leccandosi i baffi mi guarda un
istante, come se volesse avvisarmi che considera il gesto quotidiano: “Solo
il tuo dovere, nulla di più!” Prima di ritirarsi solenne verso il posticino
preferito, uno per l’estate, uno per l’inverno, provvede con formidabili
contorsioni ad un’accurata pulizia della pelliccia; non l’ho mai vista un solo
giorno della sua vita trascurare la toilette, prima di addormentarsi,
mai.
Cleo la mattina attende l’ascensore sul
pianerottolo col primo di noi che esce da casa, ma se tarda, scocciata si avvia
giù per le scale, e non c’è verso di farla tornare se è scesa di molti gradini;
se l’ascensore invece arriva quando è scesa di pochi gradini torna indietro. La
sera sa quanto c’è da attendere, perché spesso si allontana insofferente, gira
per l’ingresso fino a presentarsi puntuale all’apertura delle porte. Quando è
stanca del cortile, prima degli orari consueti, Cleo rientra a casa da sola,
sale quattro piani e resta in attesa sullo zerbino; oppure prende l’ascensore
con il signor Massimo, l’eletto umano che la accompagna volentieri.
Cleo non cerca mai di piacere, è soltanto se
stessa, senza menzogne né ipocrisie né finzioni, e forse per questo non ama la
vita, ama qualche aspetto della vita: prendere il sole, in alto, in alto, in
alto, sopra il suo triangolo di muro; il suo cesto davanti al termosifone;
stendersi su un vaso pieno d’erba; tenermi compagnia, accoccolata nell’angolo
più comodo della stanza che occupo; il tonno; soffiare e graffiare quando non
gradisce un gesto; forse ama noi, la sua famiglia adottiva, di un amore
difficile, esclusivo, raffinato. Cleo è solitaria, asociale, cupa, pensierosa,
diffidente, triste. Cleo ha perso tutti e quattro i gattini della sua unica
gestazione… avrà qualcosa dalla vita, non avrà molto, quel minimo che può
rendere la vita meritevole d’esser vissuta, e giudicherà degni d’esser vissuti
i suoi anni, ma sempre col forte desiderio di sapere: “Dove arriva
l’ascensore! Cosa c’è più in alto! Un mondo migliore del cortile, migliore
della nostra casa?”
La vecchiaia dei gatti e brevissima. D’improvviso
iniziano a deperire, a bere acqua, a dimagrire, a nascondersi. Dignità,
meravigliosa dignità anche di fronte alla prova più grande.
“Cleo è da me, davanti alla guardiola, da qualche
ora non si muove, è strana!”
Nicola, l’amico portiere dello stabile, citofona
per dirmi con voce preoccupata che non l’ha mai vista in questo stato.
“È da te? L’abbiamo cercata tanto oggi… scendo
subito!”
A casa Cleo si rifugia in un angolo, confortata
dal suo plaid preferito, dalla sua borsa d’acqua calda, e da noi. Due giorni
appena, in cui prego un Dio che non conosco di risparmiarle dolorose,
conosciute agonie. Cleo, l’incredibile gatta bianca e nera se n'è andata così,
lasciandoci di sé un’immagine serena, come quando da piccola… distesa su
quel ventre tiepido, sfoderava appena le unghie e spingeva con le zampe
anteriori, alternando la destra e la sinistra in un gesto tipico, come se
avesse ritrovato, dopo varie peripezie, la sua mamma. Cleo, gatta ostinata
e solitaria, è andata incontro all’ignoto in ascensore, è salita
su, all’ultimo piano, prima di noi, un giorno di novembre, lo stesso giorno che
ha visto nascere un amore, tanti anni fa.
“Ecco, succederà questo se la portiamo in casa!
Condividerà con noi le gioie, i dolori, le preoccupazioni e le ansie che gli
anni a venire saranno capaci di contenere, e la nostra esistenza si arricchirà
anche del colore giallo dei suoi occhi, così come si è impreziosita d’azzurro.
” Conclude la mia compagna
“E se lo lasciamo qui, invece, cosa gli accadrà?!”
“Non sarà difficile dimenticare, la quotidianità
sa spazzare via rimpianti e rimorsi con inaudita indifferenza, e ci saranno
tanti anni uguali ai pochi giorni trascorsi senza i nostri siamesi dagli occhi
di cielo. Forse qualcuno si prenderà cura di lui, oppure morirà, come muoiono
in tanti, gatti e non, selezione, è la legge della vita, non possiamo farci
niente, proprio niente.”
Pochi secondi di riflessione. Carezzo ancora la
sua testolina, si rilassa un po’ di più, mi guarda. Forse nei suoi occhi c’è la
risposta a tutte le nostre incertezze.
Forse gli occhi dei gatti, dolci e crudeli,
nascondono il segreto e il sapore ambiguo della vita.
Sente freddo, ha fame…
“Dunque, se è maschio lo chiamiamo Leo, se è
femmina... no, inorridisco al pensiero! Cosa abbiamo per lui da mangiare in
casa?”
“Del latte, un po’ di petto di pollo, lo
cuciniamo, lo tritiamo e…”
Mentre saliamo in ascensore, col topo dal
musetto bianco fra le mani.
9 dicembre 2004
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