Crederei solo a un dio che
sapesse danzare.
Friedrich
Wilhelm Nietzsche
Tutti gli anni torno su
questa spiaggia: una piccola insenatura circondata da ruderi antichi, lambita
da un mare malato e aggressivo che, inesorabile, anno dopo anno, erode strisce
di sabbia. L’amministrazione comunale tenta di rimediare come può a questo
ennesimo dramma ambientale. La sensazione è che siano semplici palliativi,
opere discutibili, buone più che altro a tacitare la coscienza; scogliere
artificiali, orribili frangiflutti di cemento interrompono la continuità del mare,
graffiano d’umano ciò che dovrebbe restare libera, azzurra linea d’orizzonte.
Ambiente naturale e condizione urbana per molto
tempo hanno convissuto in equilibrio. Non si potevano immaginare le
devastazioni inferte poi dalla bramosia di profitto e dal turismo di
massa.
Allora ero giovane… ora non più.
Un giorno sparirà anche quest’angolo di mondo, e con
esso anche i miei stupidi pensieri.
La località di mare dove da anni trascorro in
solitudine ogni prima settimana d’ottobre, è piuttosto distante dalla città
dove vivo e lavoro: un maturo signore, non troppo avanti con l’età, un incarico
ben retribuito, famiglia medio borghese, rispettabile, una condizione serena.
Una conquistata armonia senile con il mondo e con gli uomini… se non fosse per
un fastidiosissimo problema, certo di modesta entità, ma ahimè, ancora non
risolto.
La mattina del primo giorno del bel mese autunnale,
dunque, dopo aver salutato moglie e figli, mi avvio verso la stazione dove in
attesa c’è il consueto treno. Con me porto solo la vecchia valigia, utile a
contenere l’indispensabile a trascorrere sette giorni in un alberghetto ad
appena due passi dal minacciato frammento di costa. Il proprietario mi lascia
libera sempre la stessa stanza fronte mare, con il balcone tanto piccolo da
contenere a stento una sedia. Ci conosciamo da quando eravamo ragazzini.
Semplici le ragioni della nostra amicizia: da bambino trascorrevo un mese di
vacanza in una casa presa in affitto, distante pochi isolati dall’albergo.
Inevitabile conoscerci e immediata la reciproca simpatia. Così, per trentuno
giorni, insieme con altri amici giocavamo su questa sabbia; poi, uno ad uno,
noi villeggianti tornavamo a casa e lui restava qui ad attenderci per undici
lunghi mesi.
Giunto a destinazione, dopo aver salutato la compagna
e i figli dell’amico albergatore, sistemo nella stanza le mie poche cose e
scendo giù in spiaggia. Qui, davanti a me, dove ora mi trovo, seduto su una
sdraio addossata ad un vecchio muro, per ripararmi dal vento che soffia e
disturba un po’, nei giorni d’estate un’umanità multicolore dà origine ad una
classica, comune, caotica situazione da stabilimento balneare: file
d’ombrelloni, lettini, bambini, musica assordante, adolescenti smaniosi di
facili amori, confusione, in sostanza troppo di tutto.
Non mi piace più il mese degli anni d’oggi che negli
anni di ieri trascorrevo qui.
“Ah, sei arrivato Luca! Eri giù in spiaggia?”
“Ciao Diego! Sì, in spiaggia ovviamente.”
Ci abbracciamo nella piccola hall dell’albergo, io e
Diego. Non ci vediamo da mesi, sebbene ci sentiamo ogni tanto per telefono.
“La camera? Ti sei sistemato, tutto a posto?”
“Sì, tutto a posto, a parte la tenda che mi è caduta
sulla testa appena ho provato ad aprirla e la maniglia della finestra che mi è
rimasta in mano.”
“Sulla testa, dici davvero? Puoi immaginare la mia
gioia? No, scherzo, mi dispiace, provvedo subito.”
“Scherza, scherza pure, un risarcimento danni dovrei
chiederti. No, lascia stare, ho già sistemato tutto con un semplice cacciavite
preso nello stanzino degli attrezzi.”
“Non ti facevo così capace, sai anche usare un
cacciavite. Bene!”
“Sì, so anche usare un cacciavite… Hai sistemato le
stanze, cambiato i mobili, non me lo avevi detto.”
“Come non te l’ho detto, sei tu che non ricordi.”
“Accidenti, lo sai che ero affezionato a quei
mobili?!… Dopo tanti anni, è davvero seccante.”
“Erano vecchi e malandati, dovevo farlo. Non mi
sembrano male i nuovi.”
“No, vanno bene, solo che…”
“Solo che ti sei fatto vecchio, vecchio mio! Tipica
fragilità senile. Fatuo sentimentalismo.”
“Uh, ma senti, ha parlato l’adolescente! Hai
soltanto sei mesi meno di me, vecchio mio.”
“Sei mesi alla nostra età contano, e assai,
potrebbero essere fondamentali.”
Da sempre la conversazione fra me e Diego mantiene
questo tono d’affettuoso conflitto, iniziato tanto tempo fa e mai concluso:
piacevoli risse dai tempi, dai toni, dai contenuti codificati.
“Vado in camera, sistemo meglio la biancheria e
scendo. Hai da lavorare? Pranziamo insieme?”
“Avrei da fare, ma non sono cose urgenti. Ti
aspetto.”
Il ristorante adiacente all’albergo è una
costruzione supplementare, un’integrazione avvenuta dopo anni di lavoro, di
sacrifici, tante riflessioni sull’opportunità. Con gli anni, seria conduzione e
impegno, hanno dato ottimi risultati: oggi, infatti, è considerato da numerosi
esperti di gastronomia. Scendo due rampe di scale, esco dalla porta principale,
un breve corridoio all’aperto, ed eccomi arrivato nella sala edificata
sull’ultima sporgenza di roccia disponibile. Una grande vetrata si apre sul
mare. Un arredamento senza eccessi, perfezionato da vari tessuti dai colori
pastello, rivela quel tocco di raffinatezza che solo una sensibilità femminile
sa donare ad un ambiente. È il primo giorno della settimana, ci sono solo tre
tavoli occupati, Diego attende al mio
tavolino, quello d’angolo, l’ultimo in fondo a destra.
“Hai già ordinato?”
“Naturalmente!”
“Anche per me?”
“Naturalmente!”
“Scusa, come fai a sapere cosa desidero mangiare.”
“Ha ragione! Sono un gran maleducato, in fondo la
conosco appena, signor Luca. Qualora il pranzo non sia di suo gradimento può
rimandarlo indietro.”
Sorrido all’ironia con cui Diego intende dare
rilievo alla profonda conoscenza che abbiamo l’uno dell’altro.
“C’è un vento fastidioso, è così da qualche giorno
oppure è un caso?”
“È un caso! Sei tu che porti disgrazia. Fino a ieri
giornate primaverili, caldo e sole.”
“Dici davvero? Si prevede brutto tempo?”
“No, non ti preoccupare, è solo una veloce
perturbazione. Senti, piuttosto, Silvia come sta, e i ragazzi, tutto bene?”
“Tutto bene, sì, tutto bene, grazie Diego!”
“Ma Silvia come fa a tollerare ancora questa tua
fuga annuale?”
“Se ha saputo tollerarla da giovane, figurati ora
che siamo vecchi. In fondo è solo una settimana di relativa lontananza; come
sai è tutta la vita che si ripete, già da prima che ci conoscessimo.”
“Con il trascorrere del tempo però, le idee
potrebbero cambiare, un uomo potrebbe d’improvviso trovare assurdo qualcosa che
si ripete da tanto tempo. Aver risolto il problema o rinunciare a cercarne la
soluzione.”
“E invece io ancora non ho risolto il problema, non
ho rinunciato, ed eccomi qui.”
“Fratello, che tu fossi pazzo lo sapevo, il problema
è che non so ancora quanto tu lo sia… ancora dietro a Infinito più uno
uguale infinito?”
“Già, ancora dietro a Infinito più uno uguale infinito!”
Mi sveglio quando le prime luci rischiarano la
stanza. La sera evito di chiudere tende e persiane, per vivere ogni mattina
l’ineguagliabile privilegio di aprire gli occhi quando i colori pastello
dell’aurora sono più intensi. Diego aveva ragione. Il vento di ieri è scomparso
e il cielo, azzurro, pulito, senza nuvole, dà alla giornata un aspetto estivo.
Questo clima non può che mettere di buon umore. Di fretta mi vesto ed esco. È
molto presto e per non fare rumore scendo le scale in punta di piedi. Dormono
tutti. L’aria del mattino è fresca, con indosso un leggero golf di cotone il
modesto disagio scompare. Cammino senza fretta lungo la via che corre accanto
alla spiaggia, traboccante di angoli colmi di ricordi. Ascolto il mormorio
delle onde e, appena avvertibile, il rumore del treno che corre lontano. A
quest’ora l’unico locale aperto sarà quello di Vito. Lui non è un amico
d’infanzia come lo è Diego. Ci conosciamo perché tutte le mattine raggiungo il
suo bar, preso in gestione da qualche anno. È un tipo magro e ossuto, quasi del
tutto calvo, ma con un curioso ciuffo residuo di capelli sulla testa che lo fa
assomigliare ad un pulcino d’avvoltoio. Brutto come pochi esseri umani possono
essere, il brav’uomo è però un tipo semplice e simpatico, impossibile non
perdere qualche minuto in chiacchiere. Con lo sguardo miope mi scruta sempre
con benevola diffidenza. Probabile che mi giudichi un personaggio pericoloso,
troppo d’eloquio colto per essere tenuto in considerazione.
Soprattutto quando non riesco a trovare all’istante un sinonimo più
semplice, per una parola che magari uso d’abitudine, lo vedo strabuzzare gli
occhi e replicare con inquietanti suoni gutturali: sospetto una profonda
intolleranza nei miei confronti in questi momenti. Dopo colazione percorro a
ritroso il breve tratto di via. Una volta giunto sul piazzale antistante
l’albergo, scendo le poche ripide scale che conducono alla spiaggia. Sistemo la
sdraio presa nel ripostiglio, con le spalle rivolte alla parete semicircolare
di roccia gialla friabile. Nell’anfiteatro naturale, con il palcoscenico del
mare davanti, come fossi unico spettatore, osservo il mutare dei colori al
variare della luce del sole, ora ben visibile, per quanto sia ancora basso
all’orizzonte. D’improvviso un cane salta fuori dall’angolo di roccia alla mia
sinistra, seguito da un signore che lento lo segue sul bagnasciuga. Il
cucciolone, libero di correre, eccitato si tuffa in acqua, per uscirne
grondante e felice. Entrambi restano perplessi nello scorgere lo strano signore
seduto su una sdraio d’autunno. Il cane è il primo ad avvicinarsi: mi gira
attorno annusandomi curioso. Il padrone lo raggiunge dopo qualche istante.
“Buongiorno!”
“Buongiorno!” Rispondo sorridendo appena,
infastidito dal cane che mi fiuta.
“Mi scusi del disturbo.” Dice, tirando a sé il
bestione che ubbidisce riluttante.
“Oh, ma si figuri, quale disturbo… è un simpatico
cucciolone.” Fingo un po’, per educazione, di apprezzare un cane che in realtà
non mi è simpatico per niente, appartenendo alla razza dei gattofili
puri.
“Splendida giornata, non è vero?” Afferma
guardandosi attorno, come se avesse compreso il motivo del mio comportamento.
“Già, davvero, davvero!”
Scambiate poche parole di circostanza, lui e il
cagnone se ne vanno. Proseguono incamminandosi verso la striscia di sabbia che
consente di uscire dal minuscolo golfo.
Torno a pensare.
Tanti anni fa il severo Maestro Musarra, senza
sospettare che un dubbio simile potesse serpeggiare nella mente di un giovane
alunno, continuava a scrivere dei numeri sulla lavagna, ne chiariva il
significato e ogni tanto si voltava per verificare l’attenzione della classe.
Disegnato quel curioso otto coricato,
terminava il rigo con più uno uguale
infinito. Posato il gesso, ha battuto l’una contro l’altra due volte le
mani, come faceva sempre per liberarle dalla polvere; ecco poi le rituali
domande:
“Tutto chiaro ragazzi? Qualche dubbio?”
Non so cosa mi sia passato per la testa quel giorno.
Ricordo solo che mi è sembrato di cogliere un errore, o forse una svista, in
quei segni bianchi sulla lavagna, perché senza esitare ho affermato convinto:
“Ha sbagliato signor Maestro, ha sbagliato!”
Quasi sul punto di accomodarsi sulla sedia, con le
mani poggiate sulla cattedra e le ginocchia piegate, lui si è sollevato di
scatto. Rivolgendo lo sguardo prima alla lavagna, poi a noi, ha esclamato
perplesso:
“Dove?”
“Ultima riga, Infinito
più uno uguale infinito.” Ho precisato.
Continuava a fissare la lavagna come se cercasse uno
sbaglio legato ad un semplice errore di scrittura:
“Non mi pare, non vedo nulla di sbagliato.”
“C’è di sbagliato che… ” d’improvviso, mi sono reso
conto che non avevo nessun valido argomento a sostegno dell’osservazione. In
pratica sentivo che qualcosa non
andava nella somma, ma non trovavo valide ragioni da offrire “Non so cosa ci
sia di sbagliato Maestro, però la somma è sbagliata.”
“Di quale somma parli Luca? Forse questa?”
Indicandola con il dito.
“Sì, quella… e non so altro!” Ho balbettato. Non
sapevo proprio cosa dire.
Il Maestro mi ha guardato con un velo di preoccupazione
negli occhi, quindi, dedotto dall’aspetto e dal colorito roseo che non c’era
nulla da temere, con indulgenza, sorridendo ha risposto:
“Sei sicuro di stare bene Luca?… Ma siedi pure,
sentiamo lo stesso la tua voce. Vedi, sui libri di scuola, quelli che studiamo
tutti i giorni, persone preparate hanno creduto opportuno enunciare delle
regole. In ogni caso, come ben sai, non c’è nulla d’immutabile a questo mondo,
se un giorno riuscirai a trovare validi argomenti a sostegno della tua
osservazione siamo tutti pronti ad ascoltarti, d’accordo?”
Il Maestro usa un tono sgradevole e continua a
guardarmi con un sorrisetto odioso sulle labbra. L’atteggiamento ironico, poi,
mi dava proprio sui nervi; così, d’impulso, ho risposto un po’ contrariato:
“D’accordo, d’accordo, ci penserò!” Distogliendo lo
sguardo.
Tornato a casa nervoso, nessuno mi ha chiesto cosa
avessi per esserlo. I genitori erano troppo occupati con le loro faccende per
occuparsi dello stato d’animo di un ragazzino, sebbene fossi il loro ragazzino.
Senza riuscire a chiudere occhio, per tutta la notte ho pensato e ripensato
allo strano dubbio.
La mattina successiva, dopo l’appello, e prima che
iniziasse la lezione, chiesta la parola ho dichiarato:
“Io, credo d’aver capito dov’è l’errore Maestro.”
Lui, curvo sul registro, controllava le presenze.
Senza guardarmi e senza nessun particolare interesse, mi ha risposto in modo
distratto, come fosse un’insignificante parentesi, un modo come un altro per
colmare l’attesa.
“Sì, certo,
vuoi venire alla lavagna? Hai bisogno di scrivere?”
“No, non c’è
bisogno, quello che ho da dire posso benissimo dirlo da qui.” Ho risposto, e
poi, dopo un breve silenzio ho aggiunto “Se è possibile concepire e quindi
sommare uno all’infinito,
significa che l’infinito non è tale, ma se tale è l’infinito, è
impossibile concepire e sommare uno ad esso… non le pare?”
Ho temuto che lui non avesse ascoltato la
conclusione a cui ero giunto durante la notte insonne, perché continuava con lo
sguardo basso a scrivere sul registro. Trascorso qualche istante di silenzio,
però, l’ho visto sollevare la testa, posare la penna sulla cattedra, e infine
ho incrociato la sua espressione smarrita. Continuava a guardarmi senza dire
niente. Attimo molto imbarazzante! Dentro di sé ricostruiva il mio pensiero? Il
dubbio che avessi esagerato nell’esternazione, frutto più che altro di un
immaturo amor proprio ferito, mi è presto balenato nella mente. Mi aspettavo un
rimprovero, e invece mi ha sorpreso con una risposta:
“Infatti, il risultato è uguale infinito!”
“Lo so che il risultato è infinito, però a me
sembra assurdo il più uno. Non andrebbe neanche scritto!” Ho
replicato d’impulso, senza riflettere.
A questo punto, il Maestro ha tentato di spiegarmi
qualcosa, benché di scarsa efficacia in rapporto all’effetto che avrebbe voluto
ottenere. Tant’è, che da quel lontano giorno sui banchi di scuola non sono
riuscito a sbarazzarmi di quell’addizione: non sono riuscito ad intenderla come
logica matematica né ad accettarla come certezza precostituita né come verità
evidente. Per me è rimasta una semplice assurdità.
Il tempo trascorso a fissare il monotono susseguirsi
delle onde, concorre a creare un confortevole stato ipnotico: ogni cosa d’intorno scompare. La mente, così libera
dal peso arrogante della materia, può perdersi in un vortice senza conseguenze,
se non il delizioso piacere che offre anche il più piccolo, libero pensiero. In
questi anni ho capito alcune cose, non troppe e neanche troppo originali. Non
ne ho capite altre, a cosa serve tormentarsi, per esempio: meglio sarebbe
ammettere che Infinito più uno è uguale a infinito! Rifiutare una verità
costa una gran fatica. Ammettere di non sapere, accettare che non possiamo, per
esempio, esplorare ogni regione di questo immenso mare.
Come vagare nelle sue profondità?
Immersioni in apnea, immersioni con bombole,
immersioni con un sommergibile pongono dei limiti, oltre, non resta che la
fantasia. Una telecamera resistente alle potenti pressioni potrebbe arrivare
negli abissi più profondi, dove nessuno è mai arrivato. Ma una telecamera è
come un uomo con un occhio solo, ha una visione piatta della realtà. Ci
vogliono due telecamere per avere una visione tridimensionale, una coda per
nuotare, due gambe per camminare sul fondo, e da qui, comodo sulla mia sdraio,
avrei a disposizione una periferia di me,
lontana, ma pur sempre me. Sensazioni… mancano le sensazioni fisiche.
Una parte di me è incompleta se non sente come me. Occhi, coda e gambe non
bastano. Un sistema che permetta di avvertire l’acqua, le asperità, il caldo,
il freddo. Sul fondo del mare incontrerei strane creature e loro potrebbero
spaventarsi, reagire, distruggere la mia appendice. Serve un sensore che possa
permettere all’Io telecamera di avvertire il pericolo, di sentire
dolore, di fuggire se…
“Diego! Non ti avevo visto, ero distratto. Come mai
sei qui?”
“È ora di pranzo, non vieni a mangiare?”
“Ora di pranzo? Già ora di pranzo?”
“Non te ne sei accorto, ma a cosa pensavi?!”
“Pensavo che per vivere un’ineguagliabile esperienza
sul fondo del mare, si potrebbe costruire una telecamera, con due occhi e una
coda con cui nuotare e due gambe per camminare e delle sensazioni…”
“Mani, ti sei dimenticato le mani per afferrare.”
“Cosa?… Come?”
“Le mani, braccia e mani!” Afferma sintetico.
“È vero! Hai proprio ragione! Grazie Diego! Due mani
per afferrare mi farebbero davvero comodo. Ecco, ora… due mani… due gambe… oh
mio Dio! Oh mio Dio!”
Nel suo sguardo distinguo un’amorevole compassione,
per una condizione che non ha mai condiviso, ma sempre accettato. Con ritrovata
lucidità, continuo a sostenere il suo sguardo, cercando di capire da
impercettibili sfumature, se al di là del sentimento, lui giudichi la mia
espressione stordita un indizio di pena o un tratto di inarrivabile capacità
speculativa. Una superflua inutilità oppure una inaccessibile utilità.
In silenzio saliamo le scale di marmo bianco, fino a
quando Diego crede opportuno aprire un nuovo argomento:
“Beh, come è andata la mattina, non c’è molta gente,
vero!”
“No, poca gente, per fortuna. È passato un signore
con un cane e… a proposito, un ragazzo e una ragazza. Alti, belli, discutevano
animatamente e lei…”
“Sì, li conosco…” mi interrompe Diego “… è da un po’
che si vedono in giro. Litigano spesso! Ho sentito dire che lavorano nella
nuova discoteca aperta da poco qui vicino.”
“Una discoteca? Hanno aperto una discoteca?”
“Già, che c’è di male.”
“Ah, niente, niente!”
“Ah, niente,
niente! Come se non sapessi che il tuo
Ah, niente, niente! nasconde sempre qualcosa.”
“Musica, danza, ebbrezza, oblio, narcosi, droga,
velocità, schianto… povero albero! Non pensare, che ci pensano gli altri a te.”
“Per l’amor del cielo Luca! Smettila con questa
cinica ironia, non è tutto male come
tu pensi.”
“Lo so, non è tutto male come penso, ma molto è male
come penso… a proposito di male, cos’hai preparato per pranzo?”
“Che spirito! Non te lo dico. C’è un menù,
sceglierai e ordinerai, come un qualunque cliente.”
“D’accordo vecchio mio, come un qualunque cliente!”
Concludo, posando un braccio sulla sua spalla.
Da lontano riesco a scorgere l’eccezionale presenza di una persona all’interno del bar, a
quest’ora di solito deserto. La novità, seppur minima, mi infastidisce un po’.
Vito asciuga il bancone con una spugna, mi saluta, sorride e mi fa cenni
d’intesa, di nascosto dell’ignara cliente. L’appariscente presenza femminile
genera in lui uno stato d’intensa eccitazione, esagerato tumulto ormonale che
tento di spegnere ignorando i suoi grossolani ammiccamenti; piuttosto, osservo
meglio l’insolita Lei che di
mattina presto, in solitudine, fa colazione seduta nell’unico bar aperto. Con
la tazzina in mano mi scruta di sfuggita senza interesse. Fisico atletico,
slanciato, abbronzato, fasciato con abiti che lasciano ben poco
all’immaginazione. È la ragazza che litigava con il suo Lui sulla
spiaggia: è senz’altro bellissima, anche se lineamenti del viso, colore dei
capelli e altre fondamentali caratteristiche fisiche, non fanno di lei il tipo
di donna che preferisco; gusto orientato piuttosto verso donne piccoline, dalla
pelle diafana, dolci occhi azzurri, capelli chiarissimi. Nervosa continua a
tormentare la bustina dello zucchero. Per evitare di mostrarmi interessato, mi
siedo lasciando fra di noi alcuni sgabelli vuoti. Mentre Vito prepara le solite
cose che prendo ogni mattina, per alcuni istanti la osservo. Non è poi una gran
folgorazione intuire che è preda di un puro nervosismo generato da una recente
discussione. Così, d’istinto, senza motivo e senza pensare troppo, incoraggiato
da una ipotesi, cedo ad un moto spontaneo.
“È probabile che abbia solo bisogno di riflettere,
sarà senz’altro un ragazzo intelligente!” Una considerazione mediocre,
sull’orlo del non senso, sebbene mi sembrasse l’unica possibile nella
circostanza.
“Intelligente?” Mi sorprende ad alta voce “È un
perfetto idiota, altro che intelligente!” Conclude, dimenticando per
un’interminabile frazione di tempo i suoi furiosi occhi neri nei miei.
Ascoltato il chiarimento, avverto la necessità di
rimanere in silenzio. Non mi aspettavo una risposta, e quindi non so replicare.
Mi limito a seguire i suoi movimenti nervosi, senza trovare suggerimenti alla
prosecuzione del dialogo; fino al momento in cui, a propizia chiusura
dell’inquieto travaglio interiore, lei si alza, paga il dovuto e si dirige
verso l’uscita. Confortato dalla decisione, torno a concentrare l’attenzione
sulla colazione.
“Lei è il signore della sdraio!”
“Come… io… prego?” Balbetto colto di sorpresa.
“L’altro giorno alla Baia Piccola!” Ha chiarito con
un sorriso sulle labbra.
“Sì, ero io… sono io!” Confermo con imbarazzo, e
domando “Perché?”
“Oh nulla, nulla! Buongiorno!”
“Buongiorno!”
Sono solo alla Baia Piccola. Da un’ora e
trentacinque minuti osservo cielo e mare, mare e cielo. Mani unite dietro la
schiena. A passi brevi raggiungo il bagnasciuga, poi ritorno verso il vecchio
muro. Ho trascorso una notte agitata, e le notti insonni mi infastidiscono
perché continuo a pensare. Vorrei rintracciare l’origine dell’inquietudine e
soffocarla in modo rapido. D’improvviso avverto una voce provenire da dietro
l’angolo alla mia destra. Quando appare nella mia insenatura riconosco
la famosa ragazza del bar, che discute animatamente col telefonino incollato
all’orecchio. Grida, si volta verso di me ma non mi vede, agita la mano in
aria, sistema una ciocca di capelli neri, quindi torna ad agitarla. Indietro di
qualche passo, si ferma, si volta ancora, un’altra violenta imprecazione;
cammina a grandi falcate, a capo chino verso la sabbia. Se resto fermo dove
sono forse mi vedrà. Così, per evitare l’occasione, ritorno alla sdraio, sperando
che il malumore collabori a farle trascurare chi ha vicino. Chiude il
telefonino con un gesto nervoso. Alza verso il cielo invettive che non
comprendo. Resterà lì dov’è per un po’, quindi, la vedrò andare via.
Invece, contemplato a lungo l’orizzonte, si volta
verso di me e si avvicina.
“Salve!” Esordisce con un sorriso nervoso di
cortesia, e prosegue dopo aver tirato un respiro profondo, come se servisse a
scacciare la tensione “Ma lei è sempre qui?”
“Salve! Non sempre.” Rispondo desolato.
Ascoltata la risposta, senza avvertire il mio
sconforto, resta muta. Abbassa lo sguardo triste. Si siede sulla sabbia.
Accanto alla sdraio giocherella con il telefono. Ignoro le intenzioni,
tuttavia, nonostante l’insolita situazione consigli massimo autocontrollo e
sana diffidenza, fa una gran tenerezza vederla così. L’emotività non è per
niente cosa buona in simili occasioni. Accovacciata ai miei piedi sembra una
bambina, la classica figlia che non ha il coraggio di rivelare al padre le
giovani ansie che la tormentano. Non so proprio cosa dire, mi limito ad
osservarla e a tacere.
“L’ho conosciuto qualche mese fa…” inizia, mentre
carezza il telefonino senza alzare lo sguardo “… in palestra. Un giorno è
apparso insieme ad un gruppo di amici; si sono radunati in una sala separata e
hanno iniziato a provare alcuni passi di danza. Non immaginavo che tipo di
attività avessero intenzione di avviare… si è avvicinato a me in un momento di
pausa. Non era certo il primo ragazzo a prodigarsi nel tentativo di attaccare
discorso, è un evento comune in questi ambienti, spesso è solo un modo per
socializzare, spesso è per qualcosa di più. Mi può credere quando le dico che
non ho mai dato troppa confidenza a nessuno, ma in quell’occasione, beh… lo ha
visto anche lei, come avrei potuto! Bellissimo continuava a tallonarmi con
approcci tanto scontati e banali da apparire sinceri. Lo confesso, non sono
riuscita a mostrarmi indifferente.”
“Ah, capisco!” Replico incerto, indeciso sul
significato da attribuire all’inattesa confessione “È iniziata così la vostra
storia?”
“Storia? Oh, magari, purtroppo la nostra non è una storia.”
“Non lo è? Cos’è allora?”
“Un’avventura, differente da una storia!” Conclude
profetica, per riprendere dopo qualche istante con un diverso tono di voce “Per
quale motivo ieri mi ha detto Sarà senz’altro un ragazzo intelligente!
come pretende di saperlo.”
Aveva alzato il viso e finalmente mi guardava.
Speravo che lo facesse: anche dall’espressione degli occhi avrei potuto intuire
meglio il motivo dello strano modo d’agire.
“Ad esser sinceri non pretendo proprio nulla. Non
sono affatto sicuro che lo sia, come potrei, non lo conosco neppure.”
“E allora?”
“E allora?
Singolare circostanza in cui si parla senza aver riflettuto a sufficienza; non
si stupisca, è successo già altre volte. In ogni caso, confesso che nella frase
c’era della malizia, poiché… insomma, lo stereotipo è che bellezza e
intelligenza non vadano d’accordo.”
“Dunque, chi è bello è sempre cretino e chi è brutto
è sempre intelligente?”
“No, ma per carità, non è una regola… anzi, può
accadere che il brutto sia anche stupido e che il bello sia anche intelligente,
sebbene, poi, a cosa può servirgli… insomma, parlo per grandi linee, è solo
teoria, intendiamoci!”
“Capisco… vuole dire forse che l’intelligenza è…”
“L’intelligenza è capacità d’analisi, spesso,
risultato di un’impossibilità ad accettare la realtà così com’è.”
Intromettendomi in un attimo d’esitazione.
“Lo crede veramente?”
“No! Non troppo, mi sembra che sia così, ma forse
non lo è.”
“È intrigante parlare con lei, lo sa?”
“Davvero? In realtà non vorrei parlare, non mi
fraintenda, con lei è piacevole, ma io, vorrei solo cercare.”
“Cercare? Cosa cerca su questa spiaggia Professore!”
“Professore? Uh, per carità, non sono un professore,
non lo sono affatto, studio, leggo, penso, ma non lo sono.”
“Lo sembra però.”
“Dovrei esserne lusingato… no, non lo sono! Lei
piuttosto, di cosa si occupa?”
“Io sono davvero una professoressa!”
“Una professoressa, tu?”
Sornione Diego mi guarda e sorride. Afferma che mi
sono lasciato abbindolare da una tipa in vena di giocare al gatto e al topo con
un maturo, ingenuo pensatore. Replico altrettanto sicuro che a dispetto
del suo cinismo e della sua pretesa capacità di conoscere le donne, ho avuto
proprio la sensazione che lei fosse sincera.
“Perché avrebbe dovuto prendermi in giro, a quale
scopo!”
“Tu ragioni secondo una logica maschile; loro, le femmine, invece, interpretano
in modo diverso i rapporti umani. Chissà, forse eri l’unica persona presente,
in un momento in cui sentiva il bisogno di comunicare. Forse si è sentita
gratificata dal fatto di essere riuscita ad attirare l’attenzione di un
presunto professore, che poi non sei. Ma ora che sa che non lo sei vedrai, non
si farà più vedere.”
Continuo a contestare le affermazioni di Diego,
eppure, più parliamo e più sono le mie di convinzioni ad afflosciarsi,
sopraffatte da odiosi dubbi. Dopo ampia discussione, mi convinco che le sue
tesi sono più attinenti alla realtà: sì, forse la Professoressa non si farà più vedere.
Dopo ore di solitudine, il sole al tramonto allunga
l’ombra del personaggio che debutta sul palcoscenico della Baia Piccola. Da
lontano stento a riconoscerlo. Quando mi è vicino ho un sussulto di stupore.
Sorride, mentre posa una mano sulla mia spalla, quasi volesse darmi conferma,
toccandomi, che non è un sogno.
“Luca, sei qui! Sai da quanto ti cerco?”
“Maestro Musarra… lei… com’è possibile!”
Non risponde. Sorride ancora. Si abbassa per
tracciare sulla sabbia due solchi paralleli, quindi, sussurra con tono riservato:
“Per quale motivo non me l’hai mai detto?”
“Non le ho mai detto cosa, Maestro!” Replico, senza
sapere di cosa parla.
“Che avevi anche un altro dubbio, oltre a quello
della strana somma: le rette parallele che si incontrano all’infinito.”
Meravigliato nell’apprendere che era a conoscenza
dell’altro mio dubbio, mai rivelato, ribatto sicuro:
“Presumo che non sarebbe servito a nulla. Lei mi
avrebbe risposto indirizzandomi a quello che recitano i libri. Non è stato
utile prima e non è utile ora.”
“Luca, Luca, a cosa serve dubitare! Non hai la
sensazione che la verità, una qualsiasi verità, sia più comoda di un dubbio?”
“Sì Maestro, ne sono convintissimo, ho costruito
tutta la mia vita su delle Verità, tuttavia, ciò comporta delle conseguenze.
Dalla realtà resta sempre fuori qualcosa, piccole possibili varianti, c’è
sempre una domanda… Avrebbe potuto essere
diverso?!”
“Cos’hai da rimproverare alla Realtà.”
“Che cosa dovrei risponderle Maestro… proprio non
saprei.”
“Fantasia Luca, fantasia! Immagina che davanti a te
ci fosse Dio; coraggio, avanti, proponi, rimprovera, riferisci a Dio cosa c’è
che non va.”
“Lei sa che non credo in Dio, Maestro! Però, con la
fantasia diventa più facile. Dunque, Dio, gli direi, lo sai, il mondo così non
funziona, il dolore degli uomini, la sofferenza, non riesco a sopportarla. Non
capisco cosa ti sia passato per la testa il giorno che hai deciso di…”
“Non cercare di sfuggire ricorrendo alla Totalità,
Luca. Dio vuole sapere dove ha sbagliato con te.”
“Con me? Con me ha sbagliato… dunque… cosa ha
sbagliato… vediamo. L’intelligenza? No, non posso dirlo, non sono un genio, ma
neanche un cretino. Il fisico? No, non posso dirlo, non sono brutto. L’amore?
Oh, sarei ridicolo! L’amore è l’aspetto migliore. I figli? Le malattie? Le
disgrazie? No, non posso dirlo… rinuncio Maestro! Per quello che riguarda la
mia vita, non ho nulla da rimproverare a Dio.”
“Nonostante ciò?”
“Nonostante ciò i conti non tornano, insisto
nell’affermare che quel più uno…”
“Ehi! Professor Luca, mi senti? Luca!”
Apro gli occhi e mi ritrovo Lei davanti, non
più il Maestro Musarra. Resto per alcuni attimi frastornato, in bilico fra
sogno e realtà. China su di me, con una mano poggiata sulla mia spalla,
sorride.
“Professoressa! Da quando sei qui! Scusami, mi sono
addormentato… sai, sognavo il mio Maestro di scuola elementare. Parlavamo di…
ma non importa!”
“Allora ti ho disturbato, era un discorso serio?!”
L’imbarazzo svanisce in fretta. Si siede sulla
sabbia. Penso a quando dirò a Diego che le sue convinzioni in fatto di femmine
non sono poi una gran certezza. Accenna ad una scoperta. Rivelazione
importante, qualcosa di serio, a giudicare dall’intensità emotiva con cui
racconta il fattaccio. Ieri sera sono usciti insieme a cena, dopo giorni che,
causa lavoro, non avevano trovato il tempo d’incontrarsi. Presente più del
solito, lui continuava a coprirla d’affettuose attenzioni, tanto da credere, o
illudendosi di credere, che il faticoso lavoro di femmina, rivolto a
modificare i lati sovrani e peggiori del maschio, le pesanti rozzezze,
rendeva infine i frutti sperati. Per la prima volta assaporava un indizio
d’appagamento. Quando lui, dopo aver ordinato, si è allontanato per pochi
minuti, il suo telefonino, irresistibile tentazione, era rimasto incustodito
sul tavolo. Seppure consapevole che non fosse quella un’azione di cui andar
fiera, alla ricerca di chissà quali segreti ha iniziato a curiosare. Digita,
digita, sono apparsi dei nomi di donna, e non sarebbe stata poi una gran
tragedia, se accanto ad essi non ci fossero state anche delle date. Tornato al
tavolo, sebbene infastidito dal gesto di cattiva educazione, lui le ha sorriso
togliendolo dalle sue mani. Poi hanno mangiato, hanno parlato, come se niente
fosse accaduto. Comunque, l’atmosfera fra loro non era tornata a quell’armonia
d’inizio serata: da una parte era palpabile la voglia di scoprire il segreto;
dall’altra tenace la volontà di sorvolare.
“Siamo andati avanti così, ma un chiarimento mi
sembrava necessario. Ho accennato al suo lavoro, ricordi? Lo spogliarellista
non è un lavoro diverso da altri, se possiedi accanto all’indispensabile
sfrontatezza esibizionistica, anche una moralità che ti protegge dalla
corruzione dell’ambiente. Disgrazia vuole che in lui una delle due sia
totalmente assente. Gigolo… Luca!
Illeciti amori! Oltre a spogliarsi davanti a sfrenate femmine in calore,
arrotonda lo stipendio raffreddando danarose, senili amanti. Cos’erano quei
numeri? Appuntamenti!
“Terribile Professoressa, terribile! Mi dispiace,
davvero. E com’è finita la serata?!”
“È finita nel solito modo, naturalmente!”
“Nel solito modo… intendi dire, in quel modo?”
“Già!”
La candida ammissione di molle debolezza mi suscita
un senso di repulsione. Mi alzo dalla sdraio e mi allontano. Riconosco presto
l’eccesso d’emotività nascosto nella perdita di controllo. In fretta torno da
lei. È inevitabile non accennare al disagio morale, lo stesso a cui poco fa
aveva accennato. Com’è possibile ridursi a puro oggetto e restarne addirittura
appagati.
“Professoressa, ma perché lo fai! Una persona come te,
preparata, intelligente, con un essere simile un… animale… oh, perdonami, non
volevo!”
“Figurati, è vero in fondo, il problema è che a me
piace!”
“Ti piace? Intendi dire che un simile piacere è
sufficiente a giustificare… che non riesci a trovare niente di più importante
per cui valga la pena rinunciare?”
“No! Ho cercato, l’ho anche trovato, ma nessuna è
condizione sufficiente. Ora potrei parlarti del non senso della vita,
dell’eliminare una parte importante di sé… in fondo, anche tu elimini una parte
di te.”
Sorpreso dall’affermazione, resto in silenzio,
cercando di capire quale parte, secondo lei, rimuovo. Mi sembra d’intuirla e
chiedo conferma.
“Parli forse della mia parte animale?”
“Anche! Non solo! Non puoi negare che la tua
settimana di meditazione solitaria sulla spiaggia è un modo piuttosto insolito
di trascorrere il tempo. Forse la somma che non riesci a far quadrare è proprio
la tua vita.”
“La mia vita? Cosa c’entra la mia vita adesso!”
“Le regole, i valori che ti sei imposto, come mai
non ti rendono sereno? Moglie, figli, lavoro, onestà, rispetto, fedeltà… sono
forse dei fardelli professor Luca? Forse neghi a te stesso qualcosa: una
follia? un improvviso desiderio? Divieti, limitazioni, il bene e il male… più uno è forse una variante, una
possibilità, l’uno è qualcosa? Io,
tu, siamo qualcosa, abbiamo un significato, esistiamo, ma poi? Ecco, crolla
l’illusione… uguale infinito.
Svaniti, nessun significato, nessun inizio, nessuna fine. Siamo semplici,
insignificanti aspetti di una energia che in eterno si trasforma, in parità,
senza perdite, né guadagni. Cosa resta dunque? Solo il massimo piacere che puoi
ricavare da questa inutile esperienza che è la vita.”
“Piuttosto confuso il tuo ragionamento, però riesco
a capire cosa vuoi dire.” Replico, mentre continuo più del giusto a fissare i
suoi occhi neri “Desideri, desideri… oh Professoressa! Scoprire cos’è che dà
benessere, cos’è che ci rende sereni… appagare una passione momentanea potrebbe
risultare effimero e dannoso, potremmo pentirci se tornasse poi alla memoria…”
“Luca…” mi interrompe sorridendo e posando la mano
davanti alla mia bocca nel tentativo di farla tacere “Non entro in
contraddittorio con te, sarebbe un massacro. La memoria! Immagina un istante di
non avere memoria. Dimentica chi sei e ciò che hai fatto, subito dopo averlo
fatto. Ti sembra una soluzione?”
“Sì, lo è, Professoressa, però… domani devo andare
via, la settimana si conclude, e mi dispiace, molto, credimi, io vorrei…”
Sussurro, devastato dall’incontenibile, incomprensibile desiderio, controllato,
di cedere all’impulsiva voglia che ho di abbracciarla, anche se lei non è
piccola, bionda e con gli occhi chiari.
“E tu non andare, resta! Manda in pezzi il tuo
crudele Dio metodico e abitudinario.”
“Non scherzare, lo sai che non posso! Mi dispiace.”
“Dispiace anche a me, ma non è una tragedia, ci
siamo incontrati, questo è importante, non credi?”
“Sì, lo credo!”
Diego mi guarda con un’aria da folletto malizioso.
L’ho intravisto scrutare dall’alto, verso la spiaggia, tutte le mattine. Non ha
mai preteso che gli rivelassi di cosa discutevamo e a che punto fossero giunti
i rapporti, ma fra di noi i silenzi spesso contano più delle parole.
“Non fare quella faccia da scemo! Lo sai che è una
ragazza intelligente e…”
“Molto bella!” Mi interrompe.
“Già, molto bella; sebbene!”
“Sebbene?”
“Sebbene, i capelli neri, il viso… sai, i tratti
troppo marcati!”
“I tratti del viso troppo marcati hai detto!” Ripete
a conferma, e scoppia poi in una fragorosa, incontenibile risata, a cui non so
mantenermi estraneo.
“Hai preparato la valigia? A che ora parte il treno?
Allora ci vediamo quest’altr’anno.”
“Perché quest’altr’anno?”
Mi guarda perplesso.
“È una vita che è così?!”
“E allora? Le cose che da sempre sono così non
possono cambiare?”
“Vuoi dire che non vieni più? Che hai risolto Infinito più uno uguale infinito?”
“Ebbene sì… ho risolto il mistero della somma.”
“Quale sarebbe la soluzione?”
“Fino a dimostrazione contraria, Infinito più uno è uguale a uno, perché
noi siamo la sola materia che ha coscienza di esistere, in un universo
completamente e tragicamente ignorante.”
“Se lo dici tu ci credo. Allora ciao Luca!”
“Ciao Diego, tornerò presto!”
“Lo so!” Conclude con espressione insolente.
1 Novembre 2001
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