Fade far away, dissolve, and
quite forget
What thou among the leaves hast
never know...*
John Keats
Ora, a questo punto dell’esistenza pretendi che io non mi comporti così…
come puoi chiedermi questo. Frammenti di
follia anche nell’ultima traccia di senno, è davvero la fine.
Se potessi dimenticare per un istante che è priva
di significato la volontà dell’uomo, potrei credere che nessuno lo ascolterà. Se potessi sentire
nella carne tutta la sterilità di questo gesto, non direi. Se potessi rimanere
stretto fra le braccia del silenzio, lo farei. Ma come vedi, nessuno può essere
diverso da quello che è; quindi, prima che il sipario cali su un’altra inutile
esistenza, concedimi di portare a termine quello che era scritto. Lasciami
esprimere pensieri che nessuno raccoglierà. Devo recitare fino in fondo la mia
parte, e sul palcoscenico della vita, davanti ai pochi seduti sulle poltrone
del mio piccolo teatro, dirò loro che non sarebbe poi così difficile eluderlo.
Non sarebbe complicato allontanare da sé quell’iniziale, incompreso invito che
piano erge intorno a noi le bianche pareti di una stanza. Non servirebbe molto,
solo un piccolo sforzo d’integrazione, una semplice anestesia della coscienza,
un’immersione totale nel mare dell’uguale; fatto questo, integrati con la
terra, la lusinga non avrebbe effetto e Lui
diventerebbe un superfluo sottofondo, un vano corteggiamento.
Purtroppo così non è, non può essere, e ci sarà
sempre qualcuno vittima del Loro cercare.
La giovinezza è la condizione che ci dispone a
cadere nella trappola. Quando siamo dei fanciulli, l’incoscienza, l’ingenuità e
l’istintiva fuga dai dolori ci spingono in un angolo.
Vi prego, ascoltate il mio grido!
Dietro la lavagna da almeno mezz’ora,
approfittando dei momenti di distrazione dell’insegnante, spiavo i banchi di
scuola dove tutto continuava come se nulla fosse accaduto.
Mi ero trovato sul luogo del misfatto per caso;
certo, avevo seguito la scena, sapevo chi era il responsabile, l’intera classe
n’era a conoscenza, ma il maestro aveva punito me per una mancanza commessa da
un altro. Con le mani poggiate su quella pietra nera e polverosa, mi affacciavo
cauto, con discrezione cercando il colpevole. Ero curioso di osservare i suoi
occhi, l’espressione del viso, convinto che avrebbe dovuto avvertire tutto il
peso dell’ingiustizia, come l’avrei avvertita io al suo posto. Un altro
compagno pagava per una sua colpa, come resistere. Lo immaginavo mortificato,
rifugiato in un angolo dell’aula preda di devastanti sensi di colpa. Una
punizione peggiore della mia. Immaginavo questa condizione interiore
insopportabile per chiunque, ma non era così. Lui continuava sereno a parlare,
a completare il compito assegnato, ad ascoltare le parole dei compagni, senza
traccia di tormento sul viso. Ero indignato. L’aula, con le cartine geografiche
e i disegni e il crocefisso appesi alle pareti, conteneva l’immutabile
quotidianità di sempre. Il maestro leggeva sul registro: anche lui mi aveva
dimenticato. Non provavo affetto per il maestro, non perché fosse lui, era la
figura che non mi piaceva. Recitava la lezione convinto che davanti a lui ci
fossero solo degli immaturi contenitori da riempire con date, formule, poesie,
fiumi e montagne. Non ci ha mai ascoltato, se non per le interrogazioni di
rito. Non ha mai voluto sapere chi fossimo, come appena giudicassimo la vita, i
problemi d’adattamento e convivenza, i dispiaceri, le insofferenze. Al maestro
queste cose non interessavano. Quelle prime osservazioni e l’idea che le cose
non andassero come pensavo, non sono state sufficienti a convincermi che la
realtà percorreva e avrebbe percorso sempre queste vie, perché Loro si sono accorte di me.
Dalla finestra aperta, prossima alla lavagna,
entravano voci e rumori… d’improvviso ecco il canto: incerto, lontano, confuso,
ma così affascinante da catturare la mia attenzione. Senza dimenticare di controllare
il maestro, mi sono voltato per osservare il cielo azzurro, le nuvole bianche e
il sole; troppo distanti i palazzi davanti alla scuola, nessuna radio, anche
potente, avrebbe potuto diffondere cosi lontano il suono. Più il pensiero
abbandonava l’aula per inseguire quel canto, più Lui aumentava d’intensità. Non riuscivo a comprendere bene le
parole, ma non mi sembravano importanti, ero attratto dalla melodia di quel
coro. Non sono rimasto molto ad ascoltare. Esperienza rapida, subito
interrotta. Quando il maestro ha pronunciato il mio cognome il canto è svanito.
Scaduto il tempo della punizione tornavo al mio posto. Ho attraversato l’aula
con gli occhi incollati al cielo, distratto, separato dall’ambiente e dalla
brutta storia appena vissuta. Una volta seduto, ho chiesto loro cosa ne
pensassero del canto. Nessuno l’aveva sentito, neppure quelli prossimi alla
finestra.
Ero confuso, non riuscivo a capire: non hanno
udito il canto, e non sentivano rimorsi. L’insegnate pretende attenzione.
L’amarezza riemerge. Seguo la lezione in silenzio.
Nei giorni successivi, i consueti impegni riescono
a condurre la mente distante dalla strana esperienza. Non conoscevo i momenti
in cui Loro credono opportuno
manifestarsi.
Fastidioso quel lasciarmi solo al momento della
cena.
Spesso i genitori, prima di mangiare, discutevano
in soggiorno; spesso chiudevano la porta, convinti di nascondere le grida;
spesso cenavo da solo, mentre udivo le stanche ragioni dell’uno e dell’altro
alzarsi in forma di risse verbali, di pianti e di rancore.
Una prematura rassegnazione mi spingeva a
considerare il comportamento come una conseguenza del vivere insieme,
inevitabile degenerazione causata dal tempo, che muta in astio le iniziali
passioni.
Ma quella non era una sera come le altre. Quella
sera mi sentivo a disagio.
Perché quei pochi soldi lanciati con disprezzo sul
tavolo?
Perché quelle espressioni d’odio al termine del
litigio?
Trascorsi tanti giorni dalla prima esperienza,
ecco di nuovo il canto, Era una sera d’estate e le finestre erano aperte. Mi
sono alzato per raggiungere il terrazzo, senza che i genitori avvertissero la
necessità di chiedermi il motivo di quel comportamento. Sollevati gli occhi al
cielo Lui è diventato più intenso.
Era chiaro che da lì, dall’alto, proveniva quella melodia. Con lo sguardo fisso
e le orecchie tese, ho dimenticato le urla, la cattiveria, gli sguardi
minacciosi e i musi lunghi. Sono rimasto in ascolto per alcuni minuti, seduto
sul pavimento. Non ho chiesto se riuscissero ad avvertirlo, non mi interessava
la conferma dei genitori.
Mi sentivo bene. Sereno come non mai.
Siete voi stelle che versate su di noi questo
canto? Chi vi ascolta? Solo io, o chi altro? Interrogavo le mille e mille luci.
Alcune, le più piccole, luminose e lontane, davano l'impressione di sentire la
mia voce. Sembravano fremere di piacere a quel contatto, come se fossero liete
di udirmi. Vibravano di una luce sempre più intensa. Il canto continuava: mi
carezzava il viso, mi stringeva al petto, mi coccolava, mi cullava, mi
raccontava storie fantastiche, come solo una madre avrebbe potuto fare.
Trascinato via dalla terra, in un'altra dimensione, libero dalle disperate
follie del mondo, il canto disegnava solo per me un altro luogo, un’altra vita.
Mi lasciavo andare, sognavo, fino a quando una voce mi riconsegnava alla
realtà.
Non rispondevo alle domande di quelli che mi
sollecitavano a rivelare il motivo delle fughe. L’istinto mi suggeriva che non
avrebbero potuto capire, avrebbero dovuto sentire e vedere, e invece sembravano
sordi e ciechi.
Sempre più spesso, dopo cena, tornavo sul
terrazzo. I genitori mi lasciavano fare, convinti dell’innocenza nascosta nei
gesti dell’infanzia; più avanti convinti della stravaganza dell’adolescenza;
più avanti ancora convinti della follia della giovinezza.
Quella possibilità di lavoro sarebbe stata
un’autentica opportunità. Avrei occupato un posto fisso, sicuro, stabile, una
strada retta e ben tracciata verso il futuro. Tutti i giovani aspirano a
questo. La saggezza degli anziani lo suggerisce.
Dovevo recarmi da lui alle sedici, un mercoledì di
un mese autunnale. Giunto puntuale all’appuntamento, ho atteso un po’ prima di
entrare. L’ufficio, con le pareti rivestite di legno scuro e le librerie piene
d’antichi volumi, trasmetteva una sensazione di freddo. Si è sollevato appena
dalla poltrona per stringermi la mano. Era un uomo maturo, capelli brizzolati,
magro, dai movimenti rapidi. Controllava nervoso gli oggetti poggiati sulla
scrivania: le cornici, i libri e le penne. Tormentava di continuo il nodo della
cravatta, come se fosse angosciato dall’idea di trovarlo in una posizione
scorretta. Un vestito grigio di pregiata fattura contribuiva a un aspetto
conforme e integrato. Ha ripetuto più volte il mio nome, il cognome, la data di
nascita, io confermavo ogni volta. Ha parlato del mio futuro e della mia vita
come fossero cose di sua competenza. Ha rovistato fra le cartelle alla ricerca
di documenti. Mentre lo ascoltavo, osservavo i quadri appesi alle pareti, gli
attestati di studio, i riconoscimenti, le cariche all’interno del partito, il
cui simbolo spuntava più volte. Non mi guardava mai negli occhi, frugava
nell’agenda, fra gli appunti, si lagnava per una vita colma d’impegni, delle
tante opere da gestire, dei tanti amici da aiutare; passava le mani fra i
capelli e sul viso come se volesse rendere più intensa la grande stanchezza.
Sapeva nascondere bene il suo interesse dietro l’interesse per gli altri.
Quando ha sfiorato l’argomento del mondo da cambiare e degli uomini da salvare,
ho trovato il coraggio di rivolgergli una domanda. Interrompendo il suo
soliloquio ho chiesto curioso:
“Perché il mondo da cambiare? Perché gli uomini da
salvare? Cosa c’è che non va nel mondo e negli uomini? Forse lei sente il canto
delle stelle morenti?”
Ha sollevato il viso dalla scrivania e con
espressione smarrita mi ha guardato come se fissasse negli occhi l’assurdo.
Poi, aggrottando le sopracciglia, ha replicato con una domanda:
“Il canto delle stelle morenti, cos’è?”
Anche in quell’occasione non ho risposto. Sono
andato via. L’ho lasciato così, senza una spiegazione.
Nei momenti duri della vita diventava più intensa
la voglia che ascoltare le mie stelle morenti, per sciogliere le contraddizioni
e le tristezze. E questo non faceva che sopire e accrescere il dolore, smorzare
e rinnovare la sofferenza, un calvario di andare e tornare dal sogno alla
realtà, dalla realtà al sogno, lontano, troppo lontano dalla soluzione
dell’enigma esistenza.
Perché rimani accanto al suo letto come un
avvoltoio bianco a gracchiare possibili futuri, splendide prospettive e regole
vuote?! Continui a parlare a un corpo che muore, a un’anima avida di speranza.
Continui a discorrere con il tuo codazzo di adulatori intorno, convinti che la
vita sia ossequio di reputate grandezze, brama d’elargiti privilegi e attesa
della tua voce. Perché prometti. Vuoi che non sappia e non senta che è giunto
il momento di accogliere la sua anima offesa nella mia anima. Vai via,
allontanati da lei. Allontana i tuoi consigli e i tuoi riguardi che allungano
atroci agonie e accrescono il tuo oro. Allontana quelle mani in attesa di
servile prostrazione e cinico opportunismo… oh stelle morenti, ora in questo
preciso istante, affacciato a una finestra, vicino a lei, ora ho bisogno di
tutto il vostro canto. Concedetemi ancora le dolci armonie, i delicati colori
di una vita senza sofferenza e senza dolore, la luce del significato della
nostra esistenza e delle nostre azioni. Ho bisogno di voi, ho bisogno delle
illusioni e dei desideri, dei sentimenti e degli ideali. Sono incapace di
vivere come corpo inanimato, trascinato via dal flusso fatuo e senza fine dei
giorni. Ho imparato chi è il diverso, questo sì l’ho imparato. Coscienza e
consapevolezza sono chiari sintomi d’inferiorità, di inadeguatezza alla vita.
Lei pretende grigie schiere di automi e mediocrità e insensibilità e non può
essere diversa da questo perché non sarebbe vita. Ma io, stelle morenti, io
sono diverso e fragile, e voi cantate per me e pochi altri infelici come me. Catturate
i pensieri più belli, chimere e sogni irrealizzati; vi illuminate della loro
forza, brillate gonfie d’utopie scivolate via, di bene non offerto, d’amore
negato, l’amore… l’amore… e una volta avvertita la debolezza di qualcuno vi
liberate del prezioso carico,
cantando e spargendolo su di noi… su di me… per rievocare, per ricordare, per
non smarrire. Ora so qual è il vostro compito, voi volete far soffrire, perché
dalla sofferenza che nasce dal sentire e dal vedere nasce il sogno… e le
stelle. Allora non sentirò più e non vedrò più, non voglio soffrire, io spezzo
infine il ciclo dei desideri. Chiuso da dieci anni in questa stanza dalle
pareti bianche, non vedo, non sento e non soffro… vorrei! vorrei! ma vi sento,
vi sento ancora, mie dolci stelle. Le urla, le mie urla, devo urlare e urlare ancora,
ma non riesco a coprire la vostra armonia, non riesco. Sì… solo pareti bianche…
e voi voi, mi ascoltate? Non andate incontro alla sofferenza, ascoltate il mio
grido, la mia preghiera, vi scongiuro non ascoltate il canto delle stelle
morenti… non lo ascoltate… non lo ascoltate… Loro cantano solo per me ora, solo io continuo a sentirlo…
l’ultimo… e con la mia morte finiranno i sogni… non ascoltate il canto delle
stelle morenti.
* Svanire via, dissolvermi, e obliare
ciò che tu ignori fra le foglie…
“Ode ad un usignolo” di J. Keats
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