Il sei luglio dell’anno duemila, giorno del mio
compleanno, ho raggiunto la non trascurabile età di trentasei anni, e a
quest’età non si è né troppo vecchi per costruire ciò che non abbiamo
realizzato, né troppo giovani per costruire cose mai iniziate. Una classica età
di mezzo, dunque, dove possono ancora trovare spazio gli impulsi vitali, le
esperienze insolite, gli incontri importanti, la vita. Nell’occasione ho
prenotato una vacanza al mare. Quindici giorni in un villaggio turistico: meta
insolita, non amo troppo il mare, ma quell’anno la strana voglia mi opprimeva.
Così, sfogliati dei depliant pubblicitari in un’agenzia di viaggio, ho scelto
un villaggio dall’aspetto tranquillo e sono tornato a casa soddisfatto. La mia
casa, dove vivevo da solo: due camere, soggiorno e servizi, ampia e ben
organizzata, sufficiente per una famiglia normale.
La mattina del giorno
stabilito per la partenza, con la speranza di non incontrare troppo traffico mi
metto in viaggio. Considerato l’alto periodo di vacanza sono fortunato; lungo
l’autostrada pochi i motivi di rallentamento. Raggiunta la meta, la località
marina appare subito vivace, colorata e attraente. Il villaggio, situato poco
distante dal centro del paese, è delimitato da un’ampia recinzione di ferro
battuto. Pochi minuti trascorsi nell’ufficio accoglienza per sbrigare le
formalità di rito, poi una ragazza dell’animazione mi guida fino all’alloggio,
illustrandomi, lungo la strada, alcuni aspetti della vita nel villaggio. Mi
rivolge anche una serie di domande generiche, come la città di provenienza, il
lavoro, i giorni che intendo trascorrere. Quindi, una volta aperta la porta del
bungalow, e indicate di fretta poche altre cose, se ne va augurandomi una buona
vacanza. Prima di prendere possesso dello spazio a disposizione, resto per un
istante pensieroso accanto alla porta aperta, con la chiave in mano, la valigia
nell’altra, a rimirare l’ambiente. In una struttura alberghiera le camere
singole sono poche, costano di più e le persone che le occupano suscitano
sempre una gran tristezza, poiché appaiono come figure disgraziate e infelici.
Dissolta l’angoscia con un’efficace riflessione, soddisfatto della scelta e
impaziente di utilizzare ogni opportunità offerta dalla struttura, sistemo nell’armadio
l’abbigliamento totalmente nuovo: costumi, pantaloncini corti, camicie
leggerissime; nel comodino la biancheria intima; nel bagno saponi, accappatoio,
rasoio e altro. Quindi, senza trovare altre ragioni per trattenermi in camera,
con un coloratissimo asciugamano, un libro, un cappello di cotone e comode
ciabatte mi avvio lungo l’ombroso vialetto che conduce al mare. Prima di
scendere in spiaggia, però, credo opportuno fare quattro passi per il
villaggio, per rendermi conto di come potrei organizzare le giornate. Poco
distante dalla zona bungalow c’è la struttura centrale, il ristorante dove
servono i pasti, un bar con dei tavolini sistemati sulla terrazza, una specie
di anfiteatro con un cartellone dove giornalmente sono segnalati i vari
appuntamenti: giochi, spettacoli e altro. Giro per i viali. Fiancheggio aiuole
curate, piene d’erba verde e fiori. Mi sento tranquillo, calmo e rilassato,
nonostante il viaggio. Incrocio spesso lo sguardo curioso di persone mai viste
e conosciute. Rispondo con un sorriso. Smetto di sorridere quando, piuttosto
imbarazzato, inizio a sospettare che l’indiscreto interesse nei miei confronti
non sia ispirato da un’educata socialità né dall’abbigliamento sobrio né dal
fisico asciutto, ma dal colore della mia pelle, troppo bianco per non esser
notato, in stridente conflitto, comunque, con i colori solari degli abiti. A
presunta rivelazione avvenuta, combatto a lungo contro un noioso istinto di
fuga che mi sollecita a nascondermi dietro qualsiasi cosa adeguata allo scopo,
e lì restare fino al termine del soggiorno. Poi, rintracciata una certa
ridicola irragionevolezza nell’istinto, sdrammatizzo e riprendo il cammino.
Raggiunta la spiaggia, un bagnino abbronzatissimo e carico di muscoli mi
accoglie con garbo e sollecitudine. Una volta indicato il posto che mi spetta,
fornito d’ombrellone e sdraio, e accertata la soddisfazione del cliente, se ne
va sorridendo. Occupato il quadrato di sabbia, saluto i vicini, mi siedo sulla
sdraio, senza trovare il coraggio di togliermi nulla. Fortuna vuole che la
chiassosa ed estroversa famigliola accanto, composta da padre, madre e figlio,
con tatto e buona maniera non tarda ad ironizzare sul mio comportamento.
“Se mai si spoglia, mai prende il sole, e mai si
abbronza!” Afferma il capo famiglia.
Impossibile ignorare la semplice verità.
I primi due giorni passano in fretta, e se ne va
via anche quella sottile sensazione d’estraneità all’ambiente. Già la mattina
del terzo giorno giravo fra i viali, frequentavo il bar, pranzavo e cenavo,
chiacchieravo con ospiti e salariati come fossi un vecchio cliente. Dunque,
tutto sarebbe potuto andare nel migliore dei modi, se non fosse stato per un
particolare: ero sempre solo, in camera ovviamente. Non avevo considerato che
al mare la maggior parte del tempo lo si trascorre seminudi e che le tante
splendide ragazze, armate di crudele malizia, erano diventate presto un vero
tormento. Un fisico maschile sano e normale non possiede una gran capacità di
mortificare a lungo la carne, soprattutto quando questa è anche priva di
virtuose mete spirituali da raggiungere. I miei soliti riferimenti, delle
amiche con cui scambiare, sempre senza impegno, coccole, effusioni e carezze
erano lontane. Ero riuscito ad individuare delle ragazze sole, ma al di là di
effimere occhiate non avevo riscontrato alcuna disponibilità; mentre splendide
adolescenti, acerbe minorenni proibite, sottili e dorate come ninfe, sembravano
danzare con perfida spietatezza, ignorando completamente le dolorose
conseguenze che il volteggiare dei loro corpi ha sulle fantasie. Tanga
ridottissimi, sensazione di libertà totale che il mare concede ai gesti, atroce
sensualità nel distendersi sulla sabbia con pigrizia da gatte, i riflessi della
pelle, l’acqua del mare che fa aderire la stoffa del costume e lascia così poco
all’immaginazione, erano diventate un’autentica tortura.
Sennonché, la mattina del quarto giorno qualcosa
cambia.
Terminata la settimana a disposizione, la vicina
coppia d’ombrellone se ne va lasciando libero il posto in spiaggia. Di mattina,
sul tardi, ecco le due nuove ospiti: una ragazza non più giovanissima, oltre i
trent’anni, capelli scuri e corti, occhi neri e irrequieti, e una ragazzina di
circa dodici anni, poco somigliante a lei nei tratti del viso, ma identica nel
colore dei capelli e degli occhi. Poco disinvolte e molto riservate occupano lo
spazio sotto l’ombrellone, senza dare noia a nessuno, scusandosi per ogni
movimento che sospettano eccessivo. Sistemate la borsa, i sandali e le altre
poche cose che hanno con sé, si liberano del pareo copricostume, per rivelare
così la diversa conformazione fisica e una comune caratteristica: una pelle
bianca e trasparente, simile al colore dell’alabastro. La ragazzina inizia ora
a sbocciare. Il corpo snello e incerto lascia intuire appena il profilo del
seno, la rotondità dei glutei, le gambe lunghe e affusolate. Il loro primo
giorno trascorre fra creme protettive spalmate di continuo, assillate dalla
paura di scottarsi, i sorrisi di circostanza della mamma, lanciati nei rari
momenti in cui distoglie l’attenzione dalle pagine del libro e gli sguardi
obliqui e diffidenti della ragazzina.
Il mattino seguente, per prepararmi nel migliore
dei modi, mi attardo un po’ in camera. Percorro il vialetto che conduce alla
spiaggia. A metà strada le intravedo già sotto l’ombrellone.
“Buongiorno!” Accenno appena giunto.
“Buongiorno!” Risponde lei, mentre sorride, alza e
abbassa gli occhi veloci.
“Ma… suo marito? Verrà fra qualche giorno?” Tento
un garbato approccio.
“Sarà difficile, temo, siamo divorziati!”
“E un compagno? Un amico?”
“Nessun compagno, nessun amico, soltanto io e mia
figlia!” Sorride ancora.
La notizia mi mette subito di splendido umore,
nondimeno, un vago consenso a proseguire il colloquio mi procura importanti
indicazioni: che abitiamo nella stessa città, che il suo lavoro è di impiegata
in un ufficio d’assicurazioni, che possiede una piccola casa di proprietà in un
quartiere distante dal mio, e poi abitudini, amicizie. Cerco di essere
discreto, sto bene attento a non forzare le cose, assillato dall’idea di
apparire invadente. Ovviamente il desiderio di stabilire il grado d’interesse
nei miei confronti è forte. Di sicuro ha intuito il mio, dalla sincera
attenzione che dimostro per il suo spirito, ma soprattutto per quella che
dimostro per il suo corpo: gli occhi cadono spesso sull’incantevole fondo
schiena, sul seno, sulle gambe e lì restano audaci a sognare fino a quando la
dignità lo consente. La vigile ragazzina mi ha colto due volte impegnato
nell’analisi: la prima volta mi ha scrutato con severità, come se mi
rimproverasse con un «Ma cosa fai, non ti
vergogni?». La seconda
volta, invece, sembrava che nutrisse ben altro sentimento, riassumibile nella
domanda «Perché non guardi anche me?»
Pranzo insieme, vicini di tavolo, insieme anche la
cena. A fine giornata ritengo lecito supporre di non esserle del tutto
indifferente, altrimenti avrebbe agito in modo diverso, più scostante; forse la
simpatia è reciproca, forse la voglia di approfondire la conoscenza c’è, come
si usa dire. Terminato lo spettacolo serale del gruppo d’animazione, due passi
tutti e tre insieme e un saluto davanti alla porta del suo bungalow.
Il caldo della notte, la fantasia che non smette di
tormentarmi, fatico a prender sonno.
L’indomani la conversazione fra noi inizia con un tono
diverso, come se la notte avesse portato consiglio ad entrambi. In verità, di
libero arbitrio nelle notturne decisioni ce n’era stato ben poco. Di sicuro per
noi avevano già scelto gli ormoni ancora giovani, il mare, il sole, la sabbia,
ruffiani strumenti della vita. Nel corso della giornata affiora un obiettivo
nei suoi e nei miei occhi, tradito dai gesti, dalle mani che si sfiorano con
studiata destrezza, dai corpi in acqua che sfruttano ogni minima energia delle
onde per strusciare l’uno contro l’altro. A sera, dopo il consueto spettacolo
del gruppo d’animazione, non mi saluta con un appuntamento per la mattina
successiva.
“Vieni fra mezz’ora, qui da me, lei dormirà!”
Indicandomi la figlia, senza farsi vedere.
“Ma, qui da te… forse sarebbe meglio… e se si
sveglia?” Replico confuso.
Armida non ascolta ragioni. Porta avanti l’argomento
credibile del timore a lasciarla sola. Vado via. Raggiungo la camera. Una
doccia veloce. Trenta minuti precisi ed eccomi di nuovo da lei. Un colpo appena
e la porta si apre. Con un dito di traverso sulle labbra mi ordina di fare
silenzio. Nel bungalow ci sono due letti divisi: uno è accostato alla parete di
destra, l’altro alla parete di sinistra, dove, coperta appena dal lenzuolo di
cotone, dorme Alice. Armida, senza dire una parola mi esorta al silenzio. Mi
abbraccia impaziente, frettolosa e mobile, come i suoi occhi. Mentre la bacio
ripenso ai gesti riservati della signora del giorno prima, sorpreso nel
constatare il cambiamento e l’esplosiva passionalità. Tuttavia fatico a
lasciarmi andare. La situazione mi appare inquietante, per la presenza della
ragazzina, soprattutto, che non agevola per niente la passione. Non riesco a
considerarla una circostanza normale, mentre lei sembra non dare
nessun peso alla cosa. Consapevole forse del conflitto, continua a premere
contro il mio corpo rigido, poi si toglie l’accappatoio, mostrandosi nuda,
illuminata dalla luce della luna che filtra dalle persiane accostate. È
impossibile non restare conquistati da quelle forme mature e piene, ma è anche
impossibile non voltarsi di continuo verso i deboli respiri di Alice che
riescono, nonostante tutto, a prevalere sui sospiri di Armida. Continuiamo a
baciarci, ma l’eccitazione stenta a crescere. Inizia a slacciarmi i bottoni
della camicia. La toglie e la getta via, verso la spalliera di una sedia
vicina. Ci avviciniamo al letto. Si siede sul bordo, vuole che resti in piedi,
davanti a lei. Tolti pantaloncini e slip avverto d’improvviso un timore, e mi
giro d’istinto: la ragazzina dorme sempre, immobile, di un sonno profondo, come
narcotizzata. Il tempo di uno sguardo e sento la bocca di Armida occuparsi di lui,
determinata a farmi dimenticare ogni altra cosa. Un fremito di piacere e
l’eccitazione non tarda ad arrivare. Esortato nel migliore dei modi possibili lo
stelo reagisce. Dimentico, con le sue mani strette ai fianchi, dimentico,
mentre muove avanti e indietro la testa, applicandosi con estro e abilità, fino
a quando un sospiro più forte di Alice mi fa sobbalzare dallo spavento. Esco
con un guizzo dalla bocca di Armida, coprendomi ingenuamente con le mani. La
ragazzina non si è svegliata: solo un sospiro mentre cambiava posizione, e nel
farlo ora rivolge il viso a noi, con gli occhi sempre chiusi. Il lenzuolo
sgualcito, è rimasto oramai a coprire solo i fianchi. La luce rischiara il
corpo immaturo, piccole parti di pelle bianca come il marmo assediate da un
pallido rossore; disteso in posa languida e rilassata posso distinguere i seni
nell’atto primo d’apparire, le braccia sottili, le gambe. Così, senza
riflettere, quel particolare stato di spavento ed eccitazione rianima una
passione in fuga. Armida si distende sul letto. Assecondo il desiderio. La
lingua a raggiungere ogni rifugio colmo di sospiri. Mentre i fianchi sussultano,
spinge forte il bacino contro la mia bocca. Senza esitare mi distendo su di
lei. Trascuro ogni altro preliminare. Non resisto a lungo, qualche spinta
appena, e nell’istante dell’orgasmo, senza motivo, volto lo sguardo dove dorme
serena.
In tutto, fra entrare e uscire dal bungalow saranno
passati non più di tre quarti d’ora. Lungo il vialetto deserto, sulla via del
ritorno, non mi sento per niente soddisfatto di come sono andate le cose. Mi
sento sporco come fossi stato con una prostituta. Situazione ambigua, troppo
ambigua, e poi con quella ragazzina fra i piedi!
Nei giorni che seguono, non abbiamo dato motivo di
spettegolare sulla nostra reciproca simpatia, e comunque la storia non
interessava a nessuno. Discreti e controllati, da persone mature,
approfondivamo anche altri aspetti, oltre a quello sessuale.
“Sei strano, cos’hai!”
“Beh, i nostri incontri, sai, mi mette molto
imbarazzo la presenza di Alice.”
“Perché?”
“Come perché… Armida?! La ritieni una situazione
normale? E se ci vedesse?”
“E se ci vedesse, vedrebbe due esseri umani che
fanno piacevolmente l’amore, cosa c’è di male!”
“C’è di male che è scandaloso! Ma non pensi alle ripercussioni sulla sua psiche,
potrebbe…”
“Non dire scemenze Fabio!” Mi interrompe, muovendo
intorno gli occhi nervosi “Sono scandalose la violenza, la guerra,
l’ingiustizia e l’odio, queste si ripercuotono sulla psiche dei ragazzi,
l’amore e il piacere no.”
Capivo dal tono sicuro e dalle argomentazioni che
Armida sosteneva la tesi del diritto a una legittima immoralità. Le sue giustificazioni non concedevano spazio a
repliche. La ragione confermava, restava però qualcosa d’oscuro che poi, oltre
la razionalità, nel profondo, contribuiva a imperlare la fronte di sudore
freddo e rendeva il respiro angoscioso.
Armida passava con rapidità da uno stato di
apparente torpore a slanci imprevedibili, simile a una lucertola che immobile
al sole, spaventata, si dilegua in una frazione di secondo. Leggeva o
sonnecchiava, poi d’improvviso: «Vieni,
vieni con me, andiamo!» Era
la sua frase tipica, sempre accompagnata da quel moto inarrestabile degli
occhi. Non mi dispiaceva quest’aspetto di sé, tuttavia, mi inquietava molto
l’altro aspetto di sé, perché non riuscivo ancora a distinguere il confine fra
possibile e impossibile.
Spesso abbiamo approfittato dell’assenza di Alice,
impegnata in giochi con amiche e amici, per prenderci tutta la libertà
possibile.
Con la ragazzina impegnata in una gara che l’avrebbe
tenuta occupata per un’ora, un giorno, verso le quindici, orario di riposo,
solo con i costumi indosso e senza perdere tempo a coprirci con altri inutili
vestiti, ci avviamo verso il bungalow, nell’attimo preciso in cui Alice non è
più in condizioni di scorgerci. In camera, baciandoci ci sentiamo salati e
sudati, così, sotto la doccia insieme, ne approfittiamo per sperimentare ogni
possibile preliminare.
Lei presta un’attenzione maniacale alla pelle. Sa
che la genetica delicatezza non tollera disattenzioni. Le assidue cure le
concedono un candore e una morbidezza rara e sensuale. Muoio mentre sfioro
quella pelle che contiene forme non perfette, ma piacevoli, muoio
nell’accarezzare la sua parte migliore.
Asciutti e incoscienti ci gettiamo sul letto, le
mani ovunque, la bocca ovunque, la lingua ovunque, al culmine dentro di lei.
“No, aspetta!”
Non riuscivo a capire. Sguscia via, raggiunge la
borsa del trucco, prende un flacone e torna sul letto. Pensavo a un desiderio
di carezze, di coccole, prima dell’inevitabile finale, non immaginavo altra
fantasia. In ginocchio sulle lenzuola, mi versa un po’ d’olio profumato nel
palmo delle mani, poi sorridendo si distende. Non mi lascio pregare. Desidera
dei massaggi e inizio così, senza fretta e senza trascurare nessun particolare,
a massaggiare la sua pelle chiara e sottile. Chiude gli occhi. Affida il corpo
alle mie mani: il seno, l’addome, le gambe. Quindi si volta.
Incredulo, la osservo adornare quel gesto lento di
impudica voluttà. Con il cuore impazzito dedico una cura particolare alle
spalle, poi giù verso i fianchi, poi giù verso i glutei. Inarca la schiena,
brevi frasi per sussurrarmi ciò che intende offrire. Non riesco a resistere e
voglio resistere, per prolungare al massimo il godimento nell’attesa. La
passione con cui concede la sua parte migliore, ha su di me un effetto
devastante. Così distesa, in attesa, padrona sottomessa, mi appare più come
un’irrealizzabile fantasia maschile che una tangibile realtà. Poi, vinto, mi
distendo su di lei. Appena poggiato sui glutei sodi lo stelo, Armida,
impaziente, lo afferra, indicandogli la via. Spingo piano; attento nell’assecondare
il suo cedere e il suo rallentare; una volta dentro scivolo lento per
allontanare l’attimo; deciso a non concludere in fretta; concedo a lei un
insospettabile piacere, fino a raggiungere il mio, oramai inevitabile.
Sudati, un’altra doccia insieme, Armida mi appare
soddisfatta, appagata, felice.
Più rilassati torniamo sotto l'ombrellone. Alice
torna dopo pochi minuti. Ci osserva perplessa, con lo sguardo sospettoso.
“Dove siete stati?!” Esclama seria.
Ho avuto paura che l’immoralità di Armida giunga
fino al punto di rivelarle: «A fare
l’amore in camera!» Con mio
grande sollievo, invece, si limita a sostenere un’innocente bugia.
“Siamo andati al bar a prendere un caffè! Allora, ti
sei divertita?”
Quando Alice si allontana verso il bagnasciuga la
interrogo, curioso di scoprire.
“Come mai ti sei lasciata con tuo marito?!”
“Non ci siamo lasciati, mi ha lasciato!”
“Ti ha lasciato lui!” Reagisco sbigottito “E per
quale motivo?”
“Perché, che domanda sciocca Fabio. Perché finiscono
i rapporti!”
“Non so, perché finisce l’amore?”
“Anche.”
“E cos’altro.”
“Perché ha trovato un’altra donna più brava di me a
letto.”
“Più brava di te a letto?!” Sorrido divertito
“Allora ha incontrato Venere in persona, è comprensibile.”
Armida, a quelle parole si volta per guardarmi con
espressione riconoscente. Mi accarezza il viso ed esclama:
“Sei carino a dire così, non sai quanto può far
piacere questo a una donna, ma è la verità. Se ne andato con un'altra femmina,
perché io ero un’altra femmina. A lui non ho concesso mai niente di quello che
desiderava e che, in fondo, desideravo anch’io. Ho respinto le emozioni e il
gioco. Nella mente un groviglio di contraddizioni, imposizioni, esempi da
seguire, virtù da coltivare, voglie da negare, vergogne, paura di perdere il
controllo, rossori e ritegni. In pratica, regole di comportamento impossibili
da sopportare a lungo. Mi sono resa conto troppo tardi delle conseguenze che
questo amore rifiutato avrebbe
comportato, questa passione gioiosa rimproverata come immorale e vergognosa. Ma
ora è diverso, c’è consapevolezza e volontà di essere felice e di far felice!”
“Ne sei capace, Armida, ora ne sei capace.”
“Grazie… ti ringrazio Fabio… per Alice non sarà
così!” Conclude mormorando.
“Come hai detto? Cosa vuol dire!”
“Oh, nulla d’importante.”
Oltre a quel pomeriggio, abbiamo fatto l’amore in
modo diverso un’altra volta. Però la
seconda esperienza non è andata liscia come la prima. Un piccolo contrattempo
ha guastato l’incontro… o forse no!
Due settimane di vacanza trascorrono veloci. Era
l’ultima notte che trascorrevamo nel villaggio. Ci siamo incontrati per
ripetere l’esperienza consolidata dell’amore notturno nel suo bungalow:
d’altronde Alice non si era mai accorta di nulla.
Armida svela subito la sua voglia girandosi sotto di
me come una gatta. Si alza per prendere il flacone, ma la borsa del trucco si
rovescia e cade a terra. Il rumore ci sorprende divisi, restiamo immobili, in
silenzio. Alice si sveglia, passa le mani sul viso, si guarda attorno con gli
occhi semichiusi e smarriti nella tenue oscurità, sembra non riconoscere niente
e nessuno.
“Mamma, che succede?!” Mormora.
“Niente, mi è caduta la borsa del trucco. Dormi!
Dormi!” Avvicinandosi per accarezzarla.
Alice, rassicurata, poggia la testa sul cuscino e
chiude gli occhi. L’imprevisto divora gran parte della mia eccitazione. Per
Armida, invece, è come se niente fosse accaduto. Mi bacia, si inginocchia ai
piedi del letto e con le mani unte d’olio inizia a carezzarmi. Presto la sua
dannata abilità ha ragione sul mio timore. Si distende, pronta a ricevere e
godere. Entro senza indugiare sulla soglia. La sento irrigidirsi, un piccolo
lamento trattenuto a fatica. D’istinto mi giro verso il letto di Alice, per
controllare il suo sonno. Un attimo di terrore, mentre dischiude gli occhi, a fatica,
nel vuoto. Non appena li richiude:
“Scusami, non volevo.” Sussurro a Armida.
Lei sorride, rilassata si morde il labbro inferiore,
come in estasi. Scivolo senza fretta, a lungo. Il pensiero del sonno leggero
della ragazzina mi obbliga a controllarla di continuo. Credo di vedere le
labbra accennare a un sorriso mentre, sull’immagine, vibro come un fuscello.
Fino al momento dei saluti pensavo alla storia come
ad un piacevole diversivo, nient’altro. Nell’attimo del distacco, invece, ho
sentito più di un sentimento impossessarsi del cuore. La solitudine, accettata
fino ad un istante prima come condizione normale, era diventata d’improvviso
intollerabile. Terribile il pensiero che di lì a poche ore mi sarei ritrovato
solo in casa, lontano da Armida e da Alice.
Ci siamo lasciati con la promessa di telefonarci
tutti i giorni.
Terminata la vacanza, tornati quindi alle nostre
abitudini, per mesi andiamo avanti incontrandoci nei momenti di libertà. Presto
però ci stanchiamo di questo rapporto da furtivi amanti, così, adombrata loro
la possibilità, accettano con entusiasmo di trasferirsi in casa mia. Superate
senza eccessivi traumi le prime settimane di adattamento alla nuova situazione,
la vita di tutti i giorni si trasforma in fretta. Davamo l’impressione di una vera famiglia normale, con tutti i
problemi di una famiglia normale: il lavoro di Armida, il mio lavoro, la scuola
di Alice, la spesa, insomma, abitudini, caratteri e sentimenti sembravano
amalgamarsi a meraviglia.
Alice, anno dopo anno, diventa sempre più matura
nello spirito, e sempre più bella nel fisico: i fianchi si arrotondano,
sbocciano pieni i seni, le gambe snelle, la pelle d’alabastro morbida come il
velluto, un corpo adulto dunque, e una mente deliziosamente libera e
licenziosa. Comportamenti appresi e rielaborati a suo modo dalle convinzioni
materne. Per me non è un problema, per esempio, vederla uscire dalla doccia
nuda, o girare per casa con una leggera vestaglia che lascia poco
all’immaginazione: è pur sempre una giovane ragazza! Non è un problema
scorgerla distesa sul letto, con le cuffie ascoltare la musica preferita;
d’estate, con indosso un indecente completino intimo, reggiseno e mutandine,
queste ultime, fra l’altro, a impreziosire come inutile orpello la perfetta
forma del sederino: è pur sempre una giovane ragazza! Non sono un problema le
dimostrazioni d’affetto, lo stringermi forte in un abbraccio, sentire i seni, o
le labbra in un bacio impulsivo: è pur sempre una giovane ragazza!
No! Non potrei definire questi problemi. La
trovo ogni giorno più bella e desiderabile, ma potrebbe essere mia figlia, e un
po’ lo è, pertanto tutti i meccanismi del tabù dell’incesto hanno un ruolo. «È
pur sempre una giovane ragazza!» Ripeto fra me di continuo, come in una
litania liberatoria. Non serve a niente neanche la disinvolta ironia di Alice a
smuovermi dalle convinzioni: mi chiama Padre!
Equivoca sul vocabolo inteso in termini morali, come sacerdote, parroco,
monaco, e non certo come Papà.
Confesso di aver fantasticato su di lei, soprattutto durante l’amore con
Armida: purissima innocenza, umanissima imperfezione. Però, non mi permetterei
mai di sfiorarla con un dito, le catene dei codici etici non concedono vie.
Alice, invece, non soffre di queste catene e quando può mi sfiora con spontanea
malizia; oppure mi deride, soprattutto nei momenti in cui dimostro maggior
imbarazzo.
È deliziosa quando stringendo le mani al petto e
rivolgendo gli occhi al cielo sospira: «Cielo,
quale spaventosa oscenità…» Come
una sorpassata diva del cinema.
“Abbracciala, cosa ti costa, stai lì rigido come un
fuso! È una dimostrazione d’affetto, un atto d’amore, di cosa hai paura!”
Mi sollecita Armida.
Alice, a pranzo concluso, e prima di uscire con le
amiche, mi stringe a sé per baciarmi a labbra serrate sulla bocca, com’è suo
solito fare. Ho più volte bonariamente protestato, suscitando le affettuose
rimostranze di madre e figlia che, sempre con estrema convinzione, ogni volta
ridicolizzano questo, a loro dire, atteggiamento da bigotto.
Il problema, in realtà, per me non era così
irrisorio come appariva alle due donne. Ero in condizioni di capire cosa
nascondeva l’innaturale rigidità. La lunga, intima riflessione mi aveva svelato
che il calore del corpo di Alice mi causava dentro una tale vibrazione,
impossibile da ignorare. Ogni volta che si avvicinava sembravo d’improvviso
ammalarmi di quella rara e invalidante malattia che produce un tremore
crescente e infine genera, raggiunta la massima intensità, una paralisi totale.
Questo nella parte fisica, nella parte spirituale era anche peggio; perché nei
momenti in cui assaporavo l’acre profumo d’agrumi che ha la giovinezza, mi
tornava alla mente l’immagine televisiva diffusa tempo fa, in cui si vedeva un
povero disgraziato esitare in piedi sul davanzale della finestra di un grattacielo
in fiamme, incapace di scegliere fra finire bruciato vivo o finire spiaccicato
sull’asfalto dopo un breve volo. Sì, Alice per me era diventata questo, con
molto equilibrio e buon senso, naturalmente, tuttavia una scelta, fra la morte
all’inferno o la morte sull’asfalto.
“Padre! Vuoi abbracciarmi o no! Solleva queste
braccia, coraggio; sei capace di un innocente atto d’amore nei miei confronti?
Di cosa hai paura.” Fa eco Alice alla madre.
“Non ho paura, ragazzina.” Affermo mostrandomi
sicuro “Una certa dose d’imbarazzo mi sembra legittima, non credi? Se proprio
vuoi, comunque, lo faccio volentieri.”
Sollevo le braccia per stringerla forte. Sono
sufficienti appena una manciata di secondi. Alice si allontana, con lentezza,
lascia però le braccia poggiate sulle mie spalle. Mi fissa seria e perplessa,
turbata dalle avvertite conseguenze dell’abbraccio. Penso che davanti
all’evidenza dei fatti, di fronte alla palese provocazione lei, abbassati gli
occhi e rossa di disagio sul viso, si sarebbe allontanata. Mai avrei previsto
che, sorridente e compiaciuta, sarebbe tornata a stringermi con più forza.
Sotto gli occhi di Armida rimaniamo così per un po’, poi, guardandomi negli
occhi, con una certa irritazione mi lascia, come se avesse voluto prolungare
all’infinito quel capriccio, gratificata dal mio impulso animale. Con un gesto
morbido della mano sistema i capelli, saluta la madre e se ne va.
A porta chiusa Armida commenta divertita.
“Hai visto?! Cosa ti è costato farla felice!”
“Già, cosa mi è costato?!” Rispondo, sudato e
sconfortato.
Si avvicina. Mi stringe. Mi bacia.
“Armida, ti prego!…” Protesto, mentre cerco di
sfuggire, rosso di vergogna.
“Sento che Alice ti piace molto.”
“Oh mio dio… Armida! Ma è nostra… tua figlia, cosa
dici?! Come potrei?! Sei tu che…”
“Già, mia figlia, ed è bella non è vero? Ti vuole
molto bene, lo sai, molto.” Continuando a corteggiarmi.
“Un bene spirituale, certo, che non ha… cosa fai,
cosa fai…” si piega sulle ginocchia e con rapidità rimuove gli ostacoli che la
separano dal nudo proposito “Cosa fai Armida ti prego, Armida…”
A quel punto non ho nessuna possibilità di reagire.
Tiene stretto fra le mani il mio desiderio e con avidità continua a lusingarlo
con la bocca. Con le mani posate sulla sua nuca assecondo e rafforzo i
movimenti lenti ed esperti.
Ho pagato un prezzo altissimo per quell’attimo di
allentamento dei freni, per quell’istante di sciocca provocazione fallita.
Aderire al corpo di Alice, sentire ogni fibra, ogni rilievo, ogni incavo ha
significato non dimenticare: materia e spirito si dividevano in modo
definitivo, e avvertivo il secondo fare ricorso a tutte le risorse etiche per
convincere la prima ad arrendersi.
Sennonché, dopo la brutta esperienza, la convivenza è proseguita senza problemi.
Armida sembrava stimarmi di più dopo quel primo gesto, che insisteva nel
valutarlo come una prova d’affetto. A letto poi, bramosia di nuovo e voglie
licenziose in lei sembravano crescere di pari passo con la mia prospettata, e
solo mentale, libertà di lasciarmi andare alla fantasia. Se, superando sudori
freddi ed eterni tormenti, mi dimostravo disponibile con Alice, Armida
rispondeva con maggior ardore, e Alice replicava con altre sublimi malizie,
come quella di pretendere il bacio della
buona notte o sussurrarmi nell’orecchio: «Cavoli, vi ho sentito questa notte… i vostri sospiri…». Confesso che l’immersione continua
nella virtuale promiscuità, può generare una curiosa esteriorità, una
simulazione in cui ci si abitua a giocare con l’immoralità. Si accetta come se
un giorno potesse diventare vera, ma che rapida muore quando la realtà accenna
a intrufolarsi nella fantasia: una levata di scudi potente a difesa di qualcosa
di sacro, di incorruttibile. Fosse stato per me, questo tipo di andamento
familiare sarebbe anche potuto continuare, per sciogliersi, infine, seguendo la
prassi comune a tutti gli individui nella medesima situazione. Disgrazia ha
voluto che le due donne non fossero dello stesso avviso.
Con il passare dei mesi Armida e Alice sembrano
accumulare insoddisfazione, soprattutto nei confronti del mio comportamento
che, in effetti, non mostra evoluzioni. Un muro di «Questo è tutto quello che posso fare!» a cui non si rassegnano, e lavorano di fantasia verso chissà
quali mete. Il classico fulmine a ciel sereno arriva quando Armida mi
informa che ha intenzione di allontanarsi per un po’.
“Andare via? Perché Armida, non capisco. Mi vuoi
lasciare?”
“Non dire scemenze, non ti voglio lasciare! Ho solo
bisogno di riordinare le idee, di un attimo di riflessione.”
“Attimo di
riflessione! Eccolo, lo sapevo, hai incontrato un altro, gli attimi di
riflessione sono sempre concreti, fatti di carne e ossa. Come si chiama, lo
conosco?”
“Sì! Si chiama idiota e sei tu. Fabio! Fabio!” Mi
stringe il viso fra le mani e guardandomi negli occhi continua “Mi senti? Non
c’è nessun’altro. Torniamo a casa, da sole, per qualche giorno, tutto qui.”
Sembra sincera. Ho paura di restare solo… come sono
sempre stato. Amo Armida e amo Alice. Anche loro mi amano, o forse no?! Cosa è
successo di così catastrofico per prendere una simile decisione? Il mio
comportamento forse?
Nonostante le perplessità, Armida e Alice una
domenica mattina preparano le valige per far ritorno a casa. Una volta che sono
andate via, giro per le stanze come uno spettro. Guardo con tristezza i vuoti
che hanno lasciato. Raggiunta la camera mi siedo sul letto per piangere come un
ragazzino. Superata l’emotiva manifestazione di debolezza, mi accorgo che negli
armadi e nei cassetti sono rimaste molte loro cose: vestiti, biancheria intima,
una gran quantità di cosmetici che abitualmente usano. Forse torneranno? Non
sono importanti?
Con mio sommo sconforto, Alice torna il pomeriggio
successivo a prendere alcune delle cose che hanno lasciato.
“Alice, siediti, dimmi la verità, devi dirmela, tua
madre ha un altro uomo? Non mi ama più? Cos’è successo!”
La aggredisco quasi. Non so darmi pace, vorrei una
risposta. Ma lei si mostra reticente e vaga. Risponde con tanti: «Non lo so! Non la capisco! Ti telefonerà!» Evita d’incontrare i miei occhi tristi. Pochi minuti e se ne
va di fretta, con la borsa piena. Sulla porta mi bacia come sempre, io ricambio
indifferente, quasi estraneo, penso troppo a Armida.
Quando oramai l’ambigua situazione continuava a
consigliarmi azioni che solo una mente disperata può concepire, come seguirla
di nascosto o presentarmi in casa sua d’improvviso per affrontarla con
decisione, giorni dopo, domenica mattina, suona il campanello. Pieno di
speranza apro la porta e resto perplesso e muto a osservare il volto sorridente
di Alice.
“Beh, ci sei rimasto secco? Non mi fai entrare?… E
chiudi quella bocca!”
“Oh, scusami Alice e che non… veramente io…”
Entra, posa la borsa sul mobiletto che è
nell’ingresso, poi si accomoda in cucina.
“Hai un aspetto terribile, barba lunga, pigiama
ancora indosso, sei orrendo.”
“Hai ragione!” Rispondo passando una mano sul viso e
scrutando indifferente il mio aspetto trasandato “Non aspettavo nessuno… ma sei
sola? Mi sistemo in un momento…” con ritrovato pudore mi dirigo verso la stanza
da bagno “Sei venuta per prendere le poche cose rimaste?”
“No, sono venuta per restare qui.”
Dunque, in questo preciso momento, con la frase di
Alice ancora fluttuante nell’aria, l’immagine simbolica della condizione che
sto vivendo potrebbe essere quella di una bombola di gas che scoppia in una
casa già danneggiata da un terremoto. Un’esplosione che lancia lontano ciò che
è rimasto in piedi dopo la prima sciagura.
“Scusa non ho capito bene, puoi ripetere per
favore!” Stramazzo disfatto su una sedia.
“Su che hai capito, Padre! Sono venuta per stare qui
con te.”
Ribadito il proposito, rimango in silenzio, e con la
mente vuota osservo Alice che osserva divertita le mie cento espressioni di
stupore. Quindi:
“Io telefono a tua madre!”
“Certo, e confermale che sono arrivata.”
Concentrato sulle ragioni da riferire a Armida non
valuto bene la replica.
“Pronto Armida? Sì, sono io… spiegami un po’, è
arrivata Alice, è seduta davanti a me, ride! Chissà cosa avrà da ridere! Dice
che vuole restare qui… non ti sembra… come? Cosa vuol dire «L’università è più vicina e le amiche, e la distanza…» ma, tu sei d’accordo?!… A me sembra un’assurdità, mi
sembra folle tutta la situazione, tu a casa tua lei a casa mia, c’è da
impazzire. Come «Non fare l’esagerato!» come… Armida, ti rendi conto!
Cosa ho fatto di male per meritare questo… Va bene non esagero, va bene è una
cosa normale, va bene non succede niente di drammatico, va bene la smetto di
essere il solito tragico conformista, va bene. Alice è una persona matura e sa
quello che deve fare… Ciao, ciao, ci sentiamo.”
Senza pronunciare altre inutili parole, travolto
dagli avvenimenti, guardo Alice che ha seguito tutta la telefonata con
un’increspatura insolente sulle labbra, quindi mi stringo nelle spalle
rassegnato e mi rifugio nel bagno a riflettere.
Dieci minuti d’isolamento, non di più, e sento
bussare alla porta.
“Sei sotto la doccia? Guarda che io entro, ho
urgenza…”
“Alice! Non puoi fare così… sono…” Reagisco
sollevando un’energica voce di protesta.
“Uh, quante scene Padre, ma chi ti vede, capirai… come
se non avessi mai visto un uomo nudo.”
Al di là del vetro appannato la vedo sfumata come
un’ombra. Forme vaghe. Suppongo che la protezione offerta dal box doccia sia la
stessa per chi è dentro e per chi è fuori. L’idea che riesca a vedermi è
irritante. Esce e chiude la porta. Come
se non avessi mai visto un uomo nudo! Quando ho finito la raggiungo, mentre
riprende possesso della camera e sistema con calma il contenuto della borsa.
“Cosa vuol dire Come
se non avessi mai visto un uomo nudo!”
Alice non interrompe il lavoro, senza degnarmi di
uno sguardo risponde distratta:
“Significa quello che ho detto. Pensi che alla mia
età non ho mai avuto occasione di vedere un uomo nudo? Figuriamoci!”
“Vuoi dire…”
“Voglio dire, Padre!”
“Anche?…”
“Anche, Padre, anche!”
La risposta data col massimo autocontrollo, da
persona adulta, mi crea un serio imbarazzo. Mi sento davvero colpevole
d’interessarmi troppo alla sua vita intima, e senza averne il diritto, come un
vero, inopportuno ficcanaso. Il riferimento critico, l’autorità autorizzata a
indagare può essere la madre, non io, fino a prova contraria soltanto un estraneo, genetico e sociale. Nel
pomeriggio lei esce con un’amica, io vado in un grande magazzino per delle
spese. A sera ceniamo insieme, da soli. Telefono a Armida, un po’ di
conversazione, televisione, abluzioni serali, bacio della buona notte e a
letto. Mi infilo sotto le lenzuola a leggere un libro. Dalla mia camera non
vedo l’interno della stanza di Alice, ma posso scorgere se la luce è accesa,
sentire i rumori, addirittura il respiro se c’è silenzio. La giornata è stata
così intensa che ho difficoltà a prendere sonno. Mi prolungo sui capitoli, e
rivolgo ogni tanto lo sguardo verso la camera vicina: la luce è sempre accesa;
forse, come me, ha delle difficoltà a addormentarsi. Un’ora dopo, poggio il
libro sul comodino e la testa sul cuscino, nella speranza di cadere presto fra
le braccia di Morfeo. Niente. Sveglio come un predatore notturno. La luce nella
stanza di Alice è sempre accesa. Infilo le ciabatte e senza fare rumore mi
avvicino. È coricata su un fianco, il viso rivolto al muro, le spalle alla
porta. Il ritmo del respiro rivela un sonno profondo. Spengo la lampada
dimenticata accesa sul comodino. Solo un attimo di debolezza quel frugare con
gli occhi nel buio. Riaccendo il lume. Non si accorge di nulla, quieta e
rilassata: gli occhi chiusi, il viso sereno, i capelli neri che scendono liberi
sulle guance fino a sfiorarle le labbra. Il lenzuolo lascia scoperte le spalle,
quello che basta a scorgerle sprovviste delle spalline del reggiseno. Mi fermo
sulla curva del collo, sulla pelle bianca del piccolo tratto di schiena nuda,
non distinguo altro, nonostante lo sforzo di lanciare lo sguardo oltre il
possibile. Da lì in poi posso solo immaginare. Non so quanto tempo sia rimasto
a venerarla come la statua di una dea. Al primo accenno di risveglio, un
sospiro profondo cambiando posizione, lesto spengo la luce e mi allontano di
fretta.
“Buonanotte Fabio!” Mormora.
Mi sento morire dalla vergogna. Immobile sulla soglia
non so come reagire, poi, senza rispondere e senza voltarmi, torno a letto, per
girarmi e rigirarmi fra le lenzuola.
Nei giorni seguenti ognuno va per la sua strada,
lontani l’uno dall’altra. Telefoniamo regolarmente a Armida; che ancora non si
decide a rivelarmi le ragioni del distacco. Alice, la sera a cena, con
naturalezza mi narra gli avvenimenti più importanti, cerca opinioni e consigli,
senza risparmiarmi particolari di cui ne farei volentieri a meno.
“Per carità Alice, perché mi fai questo, è una
cattiveria, te ne rendi conto?!”
“No, non sono d’accordo, sei tu crudele. Io ti
racconto un’esperienza negativa, cerco il tuo aiuto, e tu? Me lo neghi… bravo
Padre che sei!”
“Alice? Alice? Mi senti? Mi stai raccontando una
esperienza sessuale, un’intima, giovanile, esperienza sessuale, e io, qui
davanti a te, femmina giovane sana e bella, non sono nient’altro che un maschio
adulto, riesci a capire?”
“Io capisco te, ma tu non capisci me. Perché gli
adulti possono insegnare tutto e non possono insegnare questo aspetto
importante della vita.”
“Ma l’amore si può spiegare in modo spirituale,
quello fisico… beh, solo in teoria!”
“Teoria? Perché in teoria! È come se mi insegnassi
la tecnica del paracadutismo e poi ti rifiutassi di tenermi abbracciata durante
il primo lancio...”
“Non è la stessa cosa…” affermo, alzandomi dalla
sedia, nel tentativo di mascherare la difficoltà “L’amore fisico lo devi
scoprire piano piano, con la persona che ami…”
“Appunto…”
“È un luogo misterioso, dove si procede con cautela,
prove, esplorazioni, con frequenti errori e insoddisfazioni, cercando la
persona giusta che sappia donarti il piacere.”
“Già, è proprio questo il problema. Tu sapresti farlo, e gli imbranati che
incontro io no. È anche una questione tecnica, credo, non solo sentimentale.”
“Io, io…
che cosa saprei fare?” bofonchio arrossendo “Tu sei pazza, Alice sei pazza! Ci
sono i tormenti, le colpe…”
“Allora lo sai cos’è successo dopo?…” Mi interrompe
innervosita.
“No, ti prego, smettila di raccontarmi cos’hai fatto
con quel tuo amico, ti prego…”
“Naturalmente, anche senza essere innamorati è stato
facile passare dai libri ai baci, gli ormoni sono quello che sono…”
“Ti prego! Vado via, ecco, mi alzo e me ne vado!”
“Vieni qua scemo, siediti… così, da bravo. Il tutto
non sarà durato più di quindici minuti. Ci siamo baciati sulla bocca, sul
collo, poi col respiro rantolante lui ha afferrato la mia mano per sollecitarla
a scendere; io ho assecondato la proposta, ma poi, nonostante il desiderio, non
sapevo cosa fare. Mi sono dilungata a massaggiare, sennonché, insoddisfatto e
infastidito dall’assenza d’iniziativa, con virile atto di coraggio ha
provveduto da solo a estrarre lo stelo. E così, caro Padre, me lo sono
ritrovato in mano, caldo e piacevole.”
“Alice… per carità, tu mi uccidi!”
“Le amiche mi avevano raccontato le loro esperienze,
avevo qualche vaga idea, ti assicuro, comunque, che dalla teoria alla pratica è
tutta un’altra cosa. È stato sempre il mio amico, più spazientito che mai, a
indicarmi il movimento giusto; però, una volta la mano era troppo veloce, una
volta troppo lenta, una volta troppo stretta, una volta troppo aperta, insomma,
un vero disastro. Infine, in un modo o nell’altro ha raggiunto il piacere. Ho
osservato curiosa il bizzarro risultato sulla mano. Ripulita in fretta con un
fazzoletto di carta e una sciacquata nel bagno, dopo abbiamo ripreso a
studiare, e ti posso assicurare che lui era piuttosto deluso della sconfortante
prestazione.”
“Va bene, ma è stata una prima volta, non puoi
pretendere che…” cerco di minimizzare, mascherando i pungoli prodotti dal
raccontino “vedrai la prossima volta andrà meglio.”
“Le prossime volte ci sono già state, e sono andate
anche peggio.”
“Peggio? Come…”
“È tardi, te lo racconterò domani, andiamo a dormire
ora.”
Andare a letto con una simile quantità di ormoni
circolanti per il corpo sarebbe stata una vera follia. Chiuso nel bagno, in
pochi secondi ricorro all’estremo espediente solitario, così, come facevo da
ragazzino, ma senza il medesimo appagamento: un effimero svuotamento che
mi lascia molto amaro in bocca. Fra le lenzuola rifletto sull’intera
esperienza, in modo da poter raccogliere dati utili a trarre le inevitabili
conseguenze. Armida, in effetti, si è sempre dimostrata una donna amorale, in condizioni di criticare
aspramente i codici etici imperanti, quindi, sua figlia, non è altro che il
risultato di questa filosofia. Cosa c’è dunque da recriminare.
Alice ha continuato imperterrita a raccontarmi le
sue storie. La prima esperienza d’amore completo, il pomeriggio che ha donato
la verginità al biondino amico di scuola. Quel po’ di dolore, la rabbia di
fronte al giovanile egoismo del maschietto. Il disagio provato quando si è
inginocchiata nel tentativo, sollecitato con impazienza, di assaporare un
maldestro e passivo piacere donato con la bocca. Ha accusato le persone adulte
di mostruosa insensibilità, incapaci, a suo dire, di superare con l’amore
imposte limitazioni. Ogni volta mi trafigge con mille aghi, ma col tempo
sentivo la sofferenza ridimensionarsi. Nonostante i ferrei propositi, nel gioco
di contrapposte ostinazioni, piano qualcosa d’importante si sgretolava: il più
debole avrebbe finito per cedere.
Festa di compleanno di un amico di Alice. A tarda
notte vado a prenderla per riportarla a casa. In macchina, tesa e nervosa, mi
risponde con pochi grugniti sgarbati.
“La colpa è tua, la colpa è sempre tua…”
“Colpa mia, ma cosa dici, cosa ho fatto di male?!”
“Se tu ti comportassi in modo diverso io non andrei
alla ricerca di quello che potrei avere senza angoscia.”
“Di cosa parli, non ti capisco, cosa ti è successo
di grave.”
“Nulla di grave, di sgradevole sì, però. A festa
conclusa, siamo rimasti in pochi, due femminucce e quattro maschietti. Avevamo
ballato, bevuto, scherzato, cantato come scemi, un divertimento innocente, legittimo
per una festa di compleanno. Qualcuno si era lasciato andare a qualche bacio, a
qualche carezza appena temeraria, nient’altro, fino a quel momento. A sera
inoltrata, dunque, siamo rimasti in sei a parlare e a bere, quando, perduti i
freni inibitori a causa dell’alcool e della musica, la mia amica si è
allontanata ritirandosi in un luogo appartato, a giocare col suo amichetto, e
io sono rimasta nel soggiorno, insieme ai restanti tre allegri maschietti con
gli occhi lucidi. Osservavo quei poveretti semi inanimati sprofondati sul
divano, e mi è passato per la testa un improvviso desiderio di provocazione.
L’intenzione era di collaudare la mia capacità
di seduzione, così,
comportandomi come un’improbabile divoratrice di uomini, mi sono avvicinata al
primo. L’ho baciato sulla bocca, poi mi sono avvicinata al secondo, e al terzo,
per ripetere la stessa azione. Dopo questa performance,
con la testa in subbuglio, mi sono allontanata di pochi passi. Ho proposto al
festeggiato di spegnere la luce che illuminava la stanza. I tre si sono
guardati negli occhi un po’ smarriti, quindi, stimolati dalla novità, facendosi
cenni d'intesa, hanno deciso di stare al gioco. Il padrone di casa ha di fretta
creato il buio, e nel buio hanno continuato a seguire il mio invito ad
accendere e spegnere una piccola lampada da tavolo che diffondeva un debole
fascio di luce, sufficiente a illuminare porzioni ridotte d’ambiente… e poi il
resto.” Sfuma d’improvviso.
“E poi il
resto cosa?!” Ho sollecitato infastidito dalla sospensione.
“E poi… beh… il giochino era senz’altro divertente,
erotico nelle intenzioni, in pratica, però, così goffo, rappresentato da simili
personaggi, da trasformarsi presto in una grottesca parodia. Il tutto sarà
durato non più di mezz’ora. A ogni rapido chiarore loro scorgevano me con
qualche indumento in meno, io scorgevo invece sei occhi sempre più eccitati.
Tolta la camicetta, con dubbia sensualità ho lasciato scivolare la gonna,
proprio come una spogliarellista. Ho indugiato a lungo, una volta rimasta in reggiseno
e mutandine, in coro mi hanno implorato di proseguire. Così ho fatto. Via il
sopra, via il sotto. Con la luce ora rimasta accesa, ho resistito sotto i loro
sguardi increduli per qualche lungo istante. Avvertivo intensi desideri
carezzarmi da lontano il corpo nudo. Era piacevole, avevo raggiunto il
risultato voluto, ma non sapevo più come muovermi, come andare avanti. Presto
ho cominciato a provare un certo imbarazzo, anche perché loro, immobili,
sbavavano senza iniziativa, come degli assetati davanti a un miraggio. Non gli
ho concesso altro tempo. Con andatura felina mi sono avvicinata al divano, mi
sono seduta e ho fatto cenno al festeggiato di avvicinarsi… volevo fare come la
mamma nel bungalow! Così, con lui in piedi davanti a me, ho trafficato con la
lampo dei pantaloni, sotto gli occhi degli altri due che sembravano diventati
statue di cera. Ho preso in mano lo stelo, l’ho osservato come un dolce
squisito e l’ho avvicinato alle labbra, gustandolo poi con tale maldestra
ingordigia che lui, eccitato com’era, non ha avuto il tempo di resistere un
secondo, rovesciandomi in bocca l’aizzato liquido. Non era andata troppo bene.
Non mi sembrava che i tempi e il piacere reciproco fossero in linea con ciò che
avevo visto fare da voi. Con il secondo… volevo fare come la mamma nel
bungalow! Mi sono distesa sul divano, ho aperto le gambe e gli ho indicato di
interessarsi al mio fiore. Ha accettato con impeto, ma i ragazzini non sanno
usare bene la lingua in amore! Un attimo mi allontanavo troppo e lui mi
abbandonava, convinto che ne avessi abbastanza; oppure spingevo troppo e lo
sentivo rantolare preda del soffocamento; in più, poveraccio, non sapeva
proprio dove andare a esplorare, e infine, seccato, si è disteso sopra di me
cercando furioso la prima via.
Disgrazia vuole che, anche lui, eccitatissimo, non ha avuto il tempo di
spingersi tanto oltre, riversando prossimo all’ingresso l’aizzato liquido. Con
il terzo… volevo fare come la mamma nel bungalow! Mi sono distesa prona sul
divano, offrendogli convinta la seconda via. Questa terza prova ha avuto esito
ancora più infelice delle altre, non si è concretizzata neanche, se non nella
forma esteriore. Il povero ragazzo è rimasto sospeso in una specie d’estasi
mistica davanti al mio sederino nudo. L’ho intravisto nel fallito tentativo di
allungare le mani, come se volesse prima accertarsi che non fosse un sogno.
L’ho visto uscire dalla trance,
calarsi i pantaloni fino alle ginocchia, afferrare risoluto lo stelo e puntarlo
in direzione della bramata via. Sennonché, col suo corpo dietro che mi
schiacciava contro i cuscini del divano, l’ho sentito sbuffare, nell’inutile
ricerca del punto dove affondare; ho sentito lo stelo gonfio premere nei punti
più strani. Infine, nel punto giusto, le mie pareti si sono chiuse come la porta
di un castello, davanti a un crudele nemico che tenta di sfondarla uno, due,
tre volte… per riversare infine fra i glutei l’aizzato liquido… tutto qui,
Padre!”
“Capisco… capisco.” Sussurro, alla fine del
racconto, impassibile come uno psichiatra alle prese con un’innocente
narrazione onirica.
Tutto mi suggerisce che Alice, in verità, mi aveva
rivelato un suo sogno erotico. Cerco di mostrarmi freddo e distaccato, è
l’unica possibilità che ho di fronte all’evidente provocazione. Tuttavia, non
posso certo ignorare i riferimenti all’esperienza nel bungalow, l’anno del
nostro incontro.
“Allora, fingevi di dormire nel villaggio.”
“Non sempre, certe volte dormivo e certe volte no.”
“Vuoi parlarmi dei tuoi traumi, del tuo turbamento
infantile?”
“Ma figurati, non essere ridicolo… eravate carini…
sembrava così piacevole… mi piacerebbe…”
“Va bene, lasciamo stare!” La interrompo, sconvolto
dalla straordinaria capacità di travolgere che può avere la
purezza “E la tua serata, com’è finita.”
“Terminata la risibile prestazione loro, mostrandomi
orgogliosi gli steli di nuovo eretti, avrebbero voluto e potuto prodigarsi in
un’altra, ma a quel punto, ci siamo resi conto che la magia del momento era
sfumata. Mi sono rivestita, delusa e nervosa. Appena il tempo di sistemare tutto
e l’amica, insieme al ragazzo, è riapparsa sulla porta del soggiorno, con
un’espressione del viso non del tutto serena: avrei saputo in seguito come
fosse rimasta a bocca asciutta anche lei, in fatto di godimento.”
Fra di noi cade un lungo silenzio. Dubbioso la
guardo. Impudente mi guarda.
“Di’ un po’ ragazzina, cosa vuoi da me!”
“Voglio che mi insegni l’amore… quello grande,
adulto.”
“Te lo posso insegnare con le parole e i consigli…”
“Non mi bastano. Voglio che me lo insegni a letto.”
“Tu sei pazza, sei completamente e drammaticamente
pazza!” Urlo, mentre mi alzo dalla sedia con un balzo ”È tardi, smettiamola,
andiamo a dormire.” Concludo.
Mi corico, e senza capire granché inizio un nuovo
libro. La sento prepararsi per la notte, borbottare qualche frase
incomprensibile e mettersi a letto. Il sonno mi coglie d’improvviso,
inaspettato, con le spalle poggiate contro la spalliera e il libro ancora
aperto in mano. Mi sveglio dopo un’ora, di soprassalto, sudato, il collo
intorpidito per la protratta, scomoda posizione. Ripongo il libro, sistemo
meglio il cuscino, spengo la luce. In camera sua c’è il solito chiarore.
Insonnolito mi alzo, comunque, per raggiungere la lampada rimasta accesa.
“Chi ti ha detto di spegnere, non dormo affatto!” Mi
rimprovera senza voltarsi.
“Scusami, credevo…” rispondo imbarazzato “La
riaccendo subito… perché non dormi?”
“Perché sono nervosa!” Replica con tono arrogante.
“Sei nervosa perché sogni troppo, e parli troppo, e
racconti troppo. Dovresti stare più calma. Rilassati, le cose hanno bisogno di
tempo.”
Mentre con dolcezza la rimprovero, languida si
volta. Si adagia sul fianco, la testa posata sul cuscino, i capelli in
provocante disordine, lo sguardo lucido e irresponsabile, il profumo d’agrumi.
Soffro, allontano i miei occhi dai suoi, ma incontro la pelle bianca del collo,
delle spalle, del braccio posato sulla coperta. Immagino il corpo nudo sotto le
coltri leggère.
Un gesto inopportuno. Un moto di vitale ribellione.
Con un colpo tira via il lenzuolo, scoprendo così la nuda bruciante bellezza,
da figura classica scolpita nel marmo. Reagisco male, come se avessi subìto
un’intollerabile violenza. Tento di coprirla. Lei risponde ogni volta
opponendosi, con gesti da bambina viziata.
“Non fare così Alice, ti prego non fare così! Rendi
tutto più difficile. È assurdo quello che mi chiedi, ti rendi conto che è
impossibile?”
Gli occhi sono restii a ignorare l’addome, i
fianchi, le gambe, il fiore. Alice ha uno sguardo amareggiato, è quasi sul
punto di piangere. Ho l’infelice idea di sedermi sul bordo del letto, accanto a
lei, con intenzioni virtuose.
“Credimi, è meglio lasciar stare, convinciti Alice?
Lasciamo stare… ora vado via, lasciami andare!” Togliendole i capelli dal viso
e carezzandola teneramente.
Alice non parla più. Respira forte, eccitata, si
volta, si distende, stringe la mia mano fra le sue e la guida sul seno.
“Non te ne andare Padre! Gioca con me questa notte,
gioca con me.” Mormora socchiudendo gli occhi.
Dunque, in questo preciso istante, con il calore del
piccolo seno fremente sotto il palmo della mano, il corpo giovane e nudo
accanto, la frase pronunciata con l’intensità di un’ultima supplica, sarebbe
potuto venire anche il Diavolo in persona a illustrarmi tutti gli eterni
tormenti che avrei patito dopo… io avrei lo stesso amato Alice.
Così come ho fatto.
Sono rimasto con la bocca sulla sua per un tempo
infinito: baciare era l’unica cosa che sapeva fare bene, il resto, tutto il
resto, gliel’ho insegnato io. A Alice ho insegnato a muoversi, ad assecondare
il gioco dei corpi, a usare la bocca, a lasciar parlare i sensi e l’istinto. A
Alice ho insegnato la serenità, la tranquillità, la reciproca comunicazione di
cui hanno bisogno i corpi. A Alice ho insegnato il tempo necessario alle
mucose, il tempo necessario ai muscoli, il tempo necessario alla cedevolezza.
Alice ha conosciuto le carezze, l’oscillazione lenta dei fianchi, i movimenti
della lingua, ha imparato a scoprire dove più intenso è il piacere. A Alice ho
insegnato tutto l’egoismo e tutto l’altruismo dell’amore; ha dimenticato
l’assillo della prestazione, ha rivelato i desideri, si è abbandonata… e il suo
corpo ha sussultato, godendo anche del piacere dell’altro. Nelle notti a
seguire ho assolto al compito che mi aveva con ostinazione richiesto. Ora Alice
conosce il piacere e la tecnica del
piacere, sa usare il corpo, sa chiedere e concedere, e sa come dischiudere la
porta del castello a quello che è tutt’altro che un crudele nemico.
Qualche settimana dopo, in un giorno di festa,
Armida d’improvviso è tornata a casa, con valige, vestiti, cosmetici e il
resto: non mi ha mai rivelato il problema che doveva risolvere e che ha risolto.
Sospetto solo qualcosa.
Trascorre del tempo.
Una mattina, per prepararmi nel migliore dei modi,
mi attardo un po’ in camera. Percorro il vialetto che conduce alla spiaggia e a
metà strada la intravedo, sola, sotto l’ombrellone.
“Buongiorno!” Accenno appena giunto.
“Buongiorno!” Risponde lei, mentre sorride, alza e
abbassa gli occhi veloci.
“Ma… suo marito? Verrà fra qualche giorno?” Tento
un garbato approccio.
“Sarà difficile, temo, siamo divorziati!”
“E un compagno? Un amico?”
“No, nessun compagno, nessun amico… solo uno scemo
che insiste a giocare come un ragazzino.”
“Alice dov’è!”
“È andata a fare il bagno con quel ragazzo… quello
con i capelli ricci.”
“Ho capito, quello con la faccia da pulcino
spaurito… come le piace giocare al gatto e al topo, come le piace, si diverte
un mondo.”
“Sì, proprio lui… ah, guarda, tornano.”
Alice si avvicina all’ombrellone, prende un
asciugamano, mi saluta ancora bagnata d’acqua di mare.
“Ciao Padre!” Mi bacia sulle labbra serrate.
“Il tuo amico, resta lì gocciolante?… Non vuoi
asciugarti?!” Gli chiedo.
“No, lo asciugherò io…” risponde al suo posto “mi
dai le chiavi del bungalow per favore. Noi andiamo… non vi fate vedere per
almeno un’ora, va bene? Ciao, a dopo.” Precisa, afferrando la mano del suo lui
per trascinarlo via.
“Perché, cosa dovete fare!” Replico con ironia.
“Cosa dobbiamo fare Padre… cosa pensi che faremo…”
“Oh, dunque, non riesco proprio a immaginarlo.”
“Oh che lo sai, lo sai bene!” Conclude con un
sorriso.
Il colloquio, seguito dal ragazzo con crescente
inquietudine, lascia strascichi di disagio, che libero si manifesta durante il
tragitto verso il bungalow.
“Ma, scusa Alice … hai fatto intendere a tuo padre
che… ho capito bene?”
“Sì, hai capito bene!…” Risponde sicura “Comunque,
Fabio non è mio padre.”
“L’hai chiamato Padre.”
“L’ho chiamato Padre, ma non è mio padre.”
“È il compagno di tua madre?”
“Sì, è il compagno di mia madre… e il mio maestro d’amore.”
“Il tuo cosa? Cos’è un maestro d’amore! Non
capisco. Mi prendi in giro. Perché lo chiami Padre?” Replica il ragazzo,
rimasto immobile in mezzo al viale.
Alice torna indietro, lo raggiunge, lo guarda,
sorride divertita e risponde:
“Non è uno scherzo, e non c’è niente da capire per
ora… dobbiamo solo divertirci; emozioni e gioco, nient’altro… Vieni?… Andiamo,
sbrigati!… Forse ti racconterò tutto in seguito, è una storia semplice.”
29 luglio 2002
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