Vorrei
premettere che una
faticosa evoluzione umana e culturale di individuo pensante, mi ha
portano, non senza antipatiche
conseguenze, a rendere soggettivo quello che era stato solo
oggettivo. Ossia, franata una verità che credevo
assoluta, non ne ho costruita una nuova analoga, ma ho evitato
proprio di costruire
alcunché,
trovando del tutto inutile edificare con tanto sforzo
un assunto
che in breve potrebbe cambiare, o non essere più adatto.
Questo per dire che la riflessione che ho fatto sull'ennesima lettura parziale di un testo tenuto da tanti letterati nella massima
considerazione, ora ha avuto questo risultato: “crescendo” potrei
anche
valutarlo in modo diverso.
Come
suppongo
sia noto
a tutti, in campo narrativo esistono “prodotti commerciali” e
“opere letterarie”. Non è questo il luogo per disquisire su una
differenza che, senza
dubbio, è patrimonio comune dell’umanità.
Si rischierebbe di infastidire chi non lo
merita o
di ripetere cose risapute e stanche. Qui vorrei solo prendere in
considerazione il secondo tipo di pubblicazioni, le “opere
letterarie”, che sono tali perché contengono elementi riconosciuti
come “artistici”. Anche
qui evito di inoltrarmi. Il
mio breve discorso non è quello di negare
un’opera
che merita di essere considerata “arte”; tutt’altro,
ritengo invece che
proprio
per questo valore intrinseco, riflette, rispecchia comunque
delle carenze che sono classiche del periodo storico e che, inoltre,
rilevano un atteggiamento umano e artistico
che non definirei proprio spocchioso,
ma senza dubbio alcuno
all’apparenza
assai
arrogante e presuntuoso.
Portando
il discorso nel quadro ristretto della narrativa Europea, dal secolo
XVIII in poi si è andata definendo in essa una tendenza che potrei
definire di carattere sociale/educativo. Nel gran
mare della narrativa ad uso distrazione
della buona borghesia
salottiera
e annoiata,
qualcuno ha creduto opportuno immettere degli elementi che avevano
la capacità di indicare quali fossero le realtà sociali e umane
che, secondo gli
autori,
andavano osservate e magari cambiate. In mancanza di varie
vie di “comunicazione di massa”, i romanzi erano anch’essi
fonte preziosa di chiarimento
e consapevolezza, ovvio
fra chi sapeva leggere.
Almeno così si è creduto per un periodo di tempo. In
seguito
il
progetto
ha
rivelato
il
suo aspetto di “grande
Illusione”, non
riuscendo ad avere
l’effetto sperato. La
cultura e la coscienza non
si
era
affatto diffusa
fra
le
maggioranze, ma si
era
sempre più
relegata
fra
risicate
minoranze disperate,
frustrate ed
emarginate.
Se
uno “scrittore” decide
di
partecipare al gioco della vita dando il suo contributo, inventa
storie che abbiano la capacità di indicare i
temi
che lui ritiene importanti, che diano se
possibile buoni
spunti di riflessione a
più lettori possibile. L’opera
letteraria,
per esser tale, deve possedere diverse caratteristiche. Importanti
sono l’espressione personale e la comunicazione. Un eccesso
dell’uno e dell’altro, comporta una squalifica della stessa. Un
corretto equilibrio di attenzione dell’artista nei confronti del
pubblico non significa snaturarsi, o spalmarsi su masse
primitive, non
significa far scrivere le opere dalla folla,
significa riuscire
meglio nella divulgazione delle “proprie idee”, così da
migliorare
la “propria capacità” di fornire spunti di riflessione.
Il lettore va rispettato e tenuto in considerazione, poiché
leggendo la storia deve immedesimarsi,
comprenderla,
e la
grandezza dello scrittore è quella di veicolare l’idea,
l’immagine, la sensazione, l’emozione mediante le parole, i
periodi e le frasi, che devono essere comprensibili, a costo di
restare minuti, se non ore, su un’unica pagina. Quando
fa
questo,
significa che considera essenziale ciò che lo scritto deve
provocare. Lui è il
mediatore
fra la realtà
e chi
legge.
Nel corso dei tempi, però, questa filosofia che considera
la collettività si è andata via
via
sgretolando, e il
solipsismo
ha prevalso sul progetto sociale. Nella
Storia, il conflitto fra individuo e collettività,
fra
visione
egoistica e modello altruistico dell’ordine
sociale
non si è mai risolto.
Per
rendere visibile
il pensiero posso citare la superiore
grandezza
di un’opera
come “Germinal”
di Emile Zola, scritto nel 1884/85, corretto nella sua forma tecnica,
scorrevole e coinvolgente. Comprensibilissimo nel testo e nel
messaggio di denuncia sociale; contrapposto
al testo “Ulysses” di James Joyce, scritto nel 1922, l’unico
libro che abbia mai visto in vendita con un altrettanto voluminoso
libro di delucidazione
accanto.
Facile ricavare
che dalla
“grande illusione”
di
fine -800,
si è arrivati
all’avvolgersi su se stessi dell’inizi
del -900.
Evidente che lo scrittore Joyce
non aveva
nessun interesse per il
“pubblico”.
La sua
semplice filosofia
di
vita
è stata quella di interpretare la
collettività come
massa
al servizio dell’individuo: è il lettore che deve sforzarsi
e
capire l’artista, deve
darsi da fare per riuscire a entrare nella
sua mente guastata
dai deliri.
Ora,
venendo alla questione con
la
signora Woolf, del suo testo “Gita al faro” ho letto per tre
volte i primi tre capitoli della prima parte, e per due volte i
secondi tre. Di quello che ha scritto, purtroppo, non mi è rimasta
traccia alcuna e, disgrazia
maggiore,
non ho capito granché. A questo punto le possibili spiegazioni sono
due: o
sono le mie ridotte capacità cognitive a impedirmi di apprezzare il
patrimonio che la signora Woolf ha
messo
a disposizione; oppure la signora Woolf, vittima di se stessa e dei
suoi tempi, non ha creduto opportuno sforzarsi a rendere
comprensibile il testo. Che io sia un soggetto che non apprezza
sperimentalismi e innovazioni non apporta giustificazioni alla prova
della Signora,
perché, anche qualora fosse, le sue pagine risultano comunque
incomprensibili. Sperimentalismo
e innovazione in questo caso sono del
tutto
fallimentari.
Sciocco
dire che le pagine sono scritte con la tecnica del “flusso di
coscienza”. Non è questa una motivazione
che rende incolpevole
l’autrice, piuttosto la qualifica,
o squalifica, come individuo che non ha ben valutato le conseguenze
di questo metodo di scrittura. O
le ha valutate e ne sconta le conseguenze.
La
mia idea su questo ennesimo incidente di percorso lungo la lettura
della Grande Narrativa Europea, è piuttosto semplice da render nota.
Quasi mai un importante fenomeno della Storia ha una sola causa,
piuttosto è tutto una
complessa
alchimia di fatti che lo
rendono possibile, o
impossibile.
Anche
in
questo caso c’è una precisa e
perpetua
dinamica sociale che va sempre
a
privilegiare
chi
è
orientato
verso norme
di vita
più in sintonia con il
modello
sociale
dell’epoca.
Se degli elementi hanno riferimenti
che
comportano sovvertimento,
caos e disordine, ovvio che questi elementi vanno emarginati.
Nella
particolare circostanza storica della
signora Woolf,
gli individui più sensibili si andavano
avvolgendo
su se stessi. Hanno
rivolto la loro attenzione all’interiorità, proprio perché
l’esteriorità, il Mondo intorno e i punti di riferimento di
sempre, i Valori su cui avevano vissuto, venivano
velocemente distrutti da una soverchiante
“volontà di potenza”, dalla
ricerca del massimo profitto, dall’espansionismo,
dal
colonialismo
e dalle
guerre.
La mostruosità del “fuori” favorisce
una disperazione che fa rivolgere le attenzioni al “dentro”. Le
colpevolezze
che attribuisco a questo modo di porsi nei confronti dell’altro,
nascono proprio dai sentimenti di arroganza e presunzione che,
sebbene in modo inconsapevole, di più se in modo consapevole, hanno
praticamente distrutto, assassinato, condannato a morte una via
luminosa che sembrava
indicare quale fosse il giusto contributo che uno scrittore dovrebbe
dare alla società in cui vive. Nessuno
vuole negare il grande apporto
che la creatività dell’individuo sa elargire, credo piuttosto che
da parte sua sia necessario dare maggiore
spazio al sociale, evitando di ridurre la narrativa d’arte a
questione
privata, inutile dimostrazione
di bravura,
catalogo
di assurde
eccentricità.
Al
di là di quale sia l’ipotesi più realistica, come individuo
pensante e cosciente, condanno questo tipo di esperienza narrativa,
giudicandola inutile, dannosa e lesiva della dignità del lettore.
Reputo
tuttavia
censurabile
la spontanea antipatia che nutro per questo tipo di osannati autori
incomprensibili, e
indecifrabili
anche se
si
tenta di farli comprendere. Così come reputo deplorevole pensare che
lodi e onori, così come l’apprezzamento altrui, siano favoriti
soltanto dal terrore di apparire ipodotati
dall’ambiente
che ci siamo scelti per trascorrere la nostra vita.
6
aprile 2018
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