Ieri pomeriggio, del tutto ignaro di cosa stava per
accadermi, mi recavo al solito posto frequentato da non so quanti anni. Ritrovo
di vecchi amici che, insieme a una famiglia che ami e che ti ama, sono a oggi la
cura più efficace per convivere in modo dignitoso con l’odioso “male oscuro”.
Quindi, candido come un pupo, d’improvviso mi sono trovato la strada sbarrata
da una nutrita e annoiata pattuglia di vigili urbani, occupata senza nessuna
voglia a indicare ad automobilisti sbraitanti come animali in gabbia strade
alternative. Supponendo che fosse la solita, quotidiana, inutile
manifestazione, per raggiungere il luogo scelto ho dovuto parcheggiare il
motorino a circa un chilometro dall’arrivo. Lungo la strada non c’erano né
bandiere né striscioni. Non udivo né suoni né voci. Uno strano silenzio che non
dava delucidazioni sulla natura del presunto corteo. Arrivato alla meta, però, la
certezza di cosa sarebbe di lì a poco avvenuto si è presentata in tutta la sua
audacia.
Ieri, 8 giugno 2019, pomeriggio, a Roma, era
previsto lo svolgersi del solito corteo qualificato come “Gay pride”, tradotto,
“Orgoglio omosessuale”, che si svolge qui e là nel mondo con frequenze annuali:
ma io non lo sapevo!
Un po’ infastidito, non certo dagli omosessuali, ci
mancherebbe, ma per la continua, estenuante, ricorrente violenza cui siamo
sottoposti, senza neanche avere il piacere di poter valutare non dico come
risolutive, ma almeno utili queste manifestazioni, che da anni e anni e anni
possono essere qualificate di totale impotenza, più che di forza.
Dopo aver salutato il mio Amico, insieme abbiamo d’improvviso
avvertito una musica assordante, che anticipava lo scivolare lungo la via di
creature, al di là del bene e del male, obiettivamente bizzarre. Fermo con le
braccia conserte sulla soglia dell’edicola, non ho perso un istante del
lunghissimo corteo. Dai poliziotti tediati a capo, alle striminzite macchine
per la pulizia alla fine. Ho visto è seguito tutto, senza troppa partecipazione,
il manifestarsi di una condizione umana oramai analizzata e archiviata.
Tuttavia, la manifestazione è durata circa un’ora, e in quei sessanta minuti,
nella mia testa malmessa, è successo qualcosa che ho dovuto poi, per forza, tenere
in considerazione. Ossia, dal primo carro gremito, con individui saltellanti intorno,
all’ultimo carro gremito, con individui saltellanti intorno, è avvenuto un
qualcosa nelle sensazioni impossibile da trascurare. Non ho perso troppo tempo
a prendere coscienza di cosa era accaduto, le emozioni sono state chiare, tanto
che la ragione ne ha subito preso atto. Non è la prima volta che assito a
simili riti di esistenza in vita, solo che anni fa, ricordo, avevano un carattere
diverso. Come se da un’iniziale, comprensibile gioia di poter/voler uscire allo
scoperto, nell’arco del tempo sia sopravvenuto un esaurimento, una stanchezza,
un “si deve fare”, un’opacità che ha spento colori e spontaneità. Rigido come
un militare di guardia all’Altare della Patria, non smettevo di scrutare, ora incuriosito,
non tanto dai bizzarri personaggi sui carri, che vanitosi/se, se non addirittura
sfacciati/te, cercavano frenetici di scuotere i partecipanti, quanto dagli anonimi
personaggi che intorno procedevano lenti. Non c’era “bella gente” sul
marciapiede e lungo la strada, tutt’altro, ciò che appariva era ”brutta gente”,
sul marciapiede e lungo la strada. Non era una classificazione soggettiva
quella che stavo compiendo, semmai una classificazione oggettiva: se fossero
stati degli Statali, o dei Pensionati, oppure dei Metalmeccanici, li avrei
comunque classificabili come “brutta gente”. C’è da chiarire che l’espressione
“brutta gente” è con riferimento a un’impressione estetica, e non “spirituale”.
Ho trascurato quei tipici atteggiamenti provocatori, se non patetici, che
dovrebbero scandalizzare e che oramai non scandalizzano più nessuno, non mi
interessavano, piuttosto cercavo di scoprire quale fosse il sentimento
caratterizzante che sembrava aleggiare fra quella folla. Folla che tentava,
senza riuscirci, di apparire spontanea e verosimile. Goffe femmine che cercavano
di apparire maschi, goffi maschi che cercavano di apparire femmine; individui
che sembravano né l’una né l’altro; maschi che ostentavano seni finti di
plastica, femmine che con strette fasce tentavano di nascondere i seni;
ondeggiare di fianchi da odalische di maschi seminudi e incedere pesante di
femmine a imitazione dei maschi; maschi e femmine, finti/e o meno, tutti a
tracannare bottiglie di birra, provavano con il semplice espediente di
mostrarsi naturali, o trasgressivi. Se i primi “orgogli omosessuali” mi sono
apparsi originali, festosi, allegri, spontanei, colorati, quest’ultimo
“orgoglio omosessuale” mi è apparso spento. La sensazione prima è che mi stesse
sfilando davanti un lungo corteo funebre, appena toccato da spenti colori. Solo
verso la fine la sensazione mi è apparsa più chiara: sembrava aleggiare su
tutti una cupa “inconsapevolezza della morte”. Il “problema omosessuale” si è acceso
per tante ragioni diverse, ragioni di carattere economico, culturale, politico,
sociale, di facile analisi. Non ho nessuna intenzione di aprire una controversia,
la dialettica che ne seguirebbe sarebbe priva di senso per due motivi. È difficile
far cambiare idea quando le posizioni sono più di fede che di ragione, quindi
inamovibili, ma soprattutto perché queste poche righe vertono su delle sensazioni,
delle emozioni provate da una persona semplice, ma non certo ignara della vita.
Quindi, dal mio punto di vista, una cupa atmosfera di decadenza pesava su
queste creature convinte di rendere omaggio alla vita. In realtà recitavano una
commedia grottesca, ignari di aver fatto carta straccia di quella che sembra
essere la principale caratteristica dell’esser vivi, quella di procreare e
trasmettere alla generazione successiva il proprio bagaglio genetico. Questo
loro rotolarsi nella mota appiccicosa e ottusamente edonista del piacere
assoluto, fine a se stesso, questa piena decadenza, fa in modo che si perda il
senso dell’esistere, il buon senso dell’esistere. Nonostante gli sforzi
intellettuali e scientifici, ignoriamo se la vita abbia un senso o meno. Però,
individui capaci di osservare non si sono lasciati sfuggire comportamenti
ignorati dai più: quello dei pinguini, per esempio, o delle rondini, oppure
delle cicogne, che si sottopongono, da secoli, a grandi sacrifici al solo scopo
della riproduzione, senza sognarsi di mettere in discussione quello che stanno
facendo. Si potrebbero trarre da queste osservazioni due conclusioni: o non ci
poniamo il problema, pensando saggiamente che siamo troppo piccoli, sebbene
massimamente arroganti e presuntuosi, per capire, e ci lasciamo dirigere da
quelle che sembrano regole valide per tutti; o ci convinciamo che la vita non
ha nessun senso, e allora ci lasciamo andare a tutto quello che di mortifero, irrazionale
e fatuo ci passa per la testa.
Liberi di scegliere. Non ci sono azioni buone o
cattive, ci sono azioni che hanno delle conseguenze.
Mi son detto poi, un po’ turbato dall’ambiguo pensiero:
che cavolo c’entra questo con i problemi di questa povera gente costretta dalla
genetica a comportarsi così, che deve gestire quotidianamente un istinto
impazzito e una massa d’umani ignoranti che li biasima? Cosa c’entra con i
pinguini, con le rondini e le cicogne? A queste domande non so rispondere.
Sarebbe troppo facile dire che, se fossero tutti così, saremmo già scomparsi.
Troppo facile dire che la grandezza esiste anche in queste devianze genetiche,
con esempi di eminenti omosessuali che hanno fatto della sobrietà,
dell’equilibrio, e dell’accettazione della loro condizione, motivo di serenità.
Troppo facile rispondere che in ogni categoria si nascondono nobiltà e miseria.
Troppo facile dire che la “specie umana” è una specie nociva e infestante, e
che la Natura troverà presto il modo per liberarsene: forse questo è uno dei
modi? Ma, come ripeto, queste poche righe non le ho scritte per risolvere un
problema, per ora irrisolvibile, le ho scritte solo per esprimere un’emozione
diversa, strana, che mi ha colpito e che ha offuscato con un velo nero una
manifestazione che avrebbe voluto, nelle intenzioni, esser di vita piuttosto
che di morte.
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